Geologia

Geologia (79)


Analizzati con un nuovo metodo presso i laboratori INGV i sedimenti argillosi provenienti dal margine di subduzione neozelandese di Hikurangi, zona in passato luogo di tsunami e terremoti.

I materiali argillosi delle faglie presenti nelle zone di subduzione, cioè dove una placca tettonica scivola al di sotto di un’altra placca, trattengono al loro interno un “cuscinetto d’acqua” e ciò fa sì che essi favoriscano terremoti potenzialmente capaci a provocare tsunami. Questo è il risultato dello studio “Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone”, condotto grazie alla collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di Pisa e Padova, e la University College London, su alcuni campioni provenienti dalla zona di Hikurangi in Nuova Zelanda. Il lavoro è stato pubblicato di ‘Nature Communications’.
“Nelle zone di subduzione” spiega Stefano Aretusini, ricercatore dell’INGV e primo autore dello studio, “lo scivolamento sismico che avviene a profondità crostali ridotte può portare alla generazione di tsunami e terremoti. A causa delle difficoltà sperimentali nel deformare i materiali presenti in queste aree, i processi fisici che riducono la resistenza della spinta cui è sottoposta la faglia sono poco conosciuti.

Ieri, in occasione della Giornata mondiale della Terra che si celebra ogni anno il 22 aprile, si è tenuta la cerimonia di benvenuto nella Global Geopark Network Unesco (Rete Geoparchi Mondiale Unesco) di due importanti parchi italiani: il Parco Nazionale della Maiella e del Parco Nazionale dell'Aspromonte.

Il Consiglio Nazionale dei Geologi e il Comitato Nazionale dei Geoparchi italiani vogliono esprimere la loro soddisfazione per un'ulteriore dimostrazione, a livello internazionale, dell'apprezzamento delle bellezze geologiche del nostro territorio, e il loro ringraziamento a tutti gli attori, enti e Ordini regionali dei Geologi che hanno concorso all'attuazione di questo importante progetto.



Pubblicato sul Journal of Geophysical Research - Solid Earth permetterà nuove strategie di monitoraggio microsismico relativamente alla fase premonitrice deformativa che si sviluppa prima dei fenomeni di instabilità.
Un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino con la collaborazione dell’Università di Mainz (Germania) e dell’Università di Portsmouth (Regno Unito), appena pubblicato sul prestigioso Journal of Geophysical Research - Solid Earth, ha rivelato i segnali sismici caratteristici dei processi di innesco e di formazione delle faglie.

 L’identificazione di segnali caratteristici dei meccanismi pre-rottura è un elemento chiave per la comprensione di diverse manifestazioni di fragilità nella crosta terrestre, quali terremoti, frane, collassi e cedimenti di infrastrutture. Tramite un approccio controllato di laboratorio il team di ricercatori ha ricostruito le relazioni tra i meccanismi sorgente della frattura rivelati dall’analisi dei microterremoti e il tipo di deformazione che si sviluppa a diversi livelli di stress applicati sulla roccia.



Il progetto è stato selezionato tra gli 11 ammessi dal protocollo esecutivo 2021-23 per la cooperazione scientifico-tecnologica bilaterale.

"Analisi di sequenze sismiche per la previsione di forti repliche", presentato dall'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, è stato inserito nel Protocollo Esecutivo 2021-2023 di cooperazione scientifico-tecnologica bilaterale tra Italia e Giappone. Complessivamente sono 11 i progetti di grande rilevanza in settori all'avanguardia ammessi a partecipare dall'accordo sottoscritto a Tokyo lo scorso 15 gennaio dall'Ambasciatore italiano in Giappone, Giorgio Starace, e da Takeshi Nakane, Ambasciatore per la Cooperazione Scientifica del Ministero degli Affari Esteri nipponico.

Il focus - Il progetto presentato dall'OGS prevede la stretta collaborazione di due enti di ricerca italiani, l'OGS e l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), con l'ente di ricerca giapponese The Institute of Statistical Mathematics (ISM). Unendo le competenze dei ricercatori dei tre enti, che hanno già sviluppato ed applicato ad alcune aree geografiche specifici algoritmi con tali finalità, ci si propone di migliorare la stima della probabilità che dopo un forte terremoto l'energia delle scosse che lo seguono, le cosiddette repliche, decada o, viceversa, si possano verificare altre forti scosse.



Pubblicati su Nature Communications i risultati dello studio coordinato dall’Università di Firenze, in collaborazione con i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delle Università di Palermo, di Pisa e di Torino e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Napoli

 Monitorando la deformazione del suolo dei vulcani è possibile capire in anticipo quando arriverà una violenta eruzione. Lo ha verificato sul vulcano Stromboli il team di ricercatori coordinati da Maurizio Ripepe, ricercatore dell’Università di Firenze, che ha sviluppato un sistema di allerta automatico in tempo reale. All’indagine, i cui risultati sono pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature communications, hanno collaborato i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delleUniversità di Palermo, di Pisa e di Torino, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Napoli e dell’Università di Tohoku in Giappone.

 

 

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che caratterizza l'Agenda di Governo nell'ambito del Recovery Fund, costituisce per l'Italia una notevole opportunità di sviluppo e di rilancio delle politiche ambientali. Sull'argomento, il Consiglio Nazionale dei Geologi, su richiesta del Presidente della Commissione VIII (Ambiente) della Camera dei Deputati, ha trasmesso una propria memoria contenente proposte puntuali e spunti di natura programmatica e progettuale di interesse della categoria.

Il documento si pone in perfetta aderenza con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi, nel discorso programmatico con cui ieri ha chiesto la fiducia al Senato, che in vari passaggi ha posto l'attenzione su tematiche di natura ambientale, collocando al centro delle proposte progettuali la tutela del territorio in tutte le sue componenti.

In particolare, tra le priorità per ripartire, il Premier ha mostrato preoccupazione per i cambiamenti climatici e le relative implicazioni sulla vita dell'uomo, ritenendo imprescindibile "proteggere il futuro dell'ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale".




Un team internazionale di ricercatori ha identificato per la prima volta la presenza di una zona di transizione mantellica più sottile della media e caratterizzata da elevate temperature al di sotto della dorsale medio atlantica. Ciò favorisce la cinematica delle placche, contribuendo all’apertura della dorsale oceanica.
Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature”

Dalle grandi profondità della dorsale medio atlantica, struttura che separa la placca americana da quelle eurasiatica ed africana, arriva una nuova scoperta nel sempre acceso dibattito per individuare i meccanismi del movimento della superficie terrestre.
Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università di Southampton (UK), ha rintracciato per la prima volta nel segmento equatoriale della dorsale medio atlantica la presenza di una zona di transizione mantellica più sottile della media e caratterizzata da elevate temperature. Una condizione peculiare che facilita il movimento verticale del materiale mantellico, agevolando il movimento delle placche terrestri e contribuendo all’apertura della dorsale oceanica.


Arriva dalle grandi profondità dei ghiacciai dell’Antartide la risposta ad uno dei quesiti che è stato per anni un vero rompicapo per gli scienziati: la presenza di acqua sul Pianeta Rosso. Una ricerca internazionale condotta da ricercatori Italiani, USA, UK e Hong Kong e guidata dal gruppo di Glaciologia dell’Università di Milano-Bicocca (Giovanni Baccolo, Barbara Delmonte, Valter Maggi) ha permesso di identificare per la prima volta la formazione del minerale di jarosite (solfato idrato di ferro e potassio) a grandi profondità nei ghiacciai Antartici. Questo risultato conferma l’ipotesi secondo la quale i sedimenti ricchi di jarosite individuati sulla superficie di Marte dal Rover Opportunity della NASA, sarebbero legati alla presenza di grandi calotte di ghiaccio che hanno coperto parte del pianeta rosso nell’antico passato geologico. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista “Nature Communications” (“Jarosite formation in deep Antarctic ice provides a window into acidic, water-limited weathering on Mars”).

La scoperta di estesi depositi di jarosite su Marte fu a suo tempo un traguardo scientifico fondamentale poiché la formazione di questo minerale richiede la presenza di acqua liquida; tuttavia, non era ancora chiaro come questi depositi si fossero creati. Una delle possibili spiegazioni, coerente con le dimensioni e le caratteristiche di tali depositi, prevede la presenza su Marte di antiche calotte glaciali di grandi dimensioni, ricche di polveri, in diverse regioni del pianeta. Questa ipotesi ha trovato oggi una prima conferma diretta grazie allo studio condotto presso il laboratorio di Glaciologia EUROCOLD LAB dell’Università di Milano-Bicocca, in stretta collaborazione con il laboratorio di Houston della NASA (USA), il sincrotrone Diamond Light Source (UK), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’Università di Roma Tre e l’Università di Hong Kong.



Il lungomare del distretto di Pluit a Jakarta in Indonesia, situato alcuni metri sotto il livello del mare e protetto da esso per mezzo di un muro di cemento che deve essere rialzato ogni pochi anni per contrastare una subsidenza di 10-20 cm / anno dovuto

Uno studio condotto dall'Università di Padova e dagli Istituti del Consiglio nazionale delle ricerche per la protezione idrogeologica (Cnr-Irpi) e di geoscienze e georisorse (Cnr-Igg), evidenzia per la prima volta che l’abbassamento della superficie terrestre dovuto allo sfruttamento del sottosuolo può causare impatti ambientali e socio-economici rilevanti. L’86% della popolazione mondiale interessata dal fenomeno vive in Asia. In Italia le regioni più coinvolte sono Emilia-Romagna, Veneto, Puglia, Toscana, Campania e Calabria. Il lavoro, pubblicato su Science, è stato svolto nell’ambito dell’Iniziativa LaSII dell’UNESCO.



Grazie a misure accurate della reazione nucleare che conduce alla produzione di elio leggero, è possibile risalire ad alcune proprietà dell’Universo determinate nei primi minuti dopo il Big Bang.

Una reazione chiave del processo di produzione degli elementi chimici più leggeri, molto importante nei primi momenti di vita del nostro Universo, è quella per cui da un protone e un nucleo di deuterio (un isotopo dell’idrogeno) si ottiene l’elio-3 (un isotopo dell’elio), in simboli: D(p,γ)3He.

Questa reazione è stata indagata, con precisione e accuratezza mai raggiunte prima, dall’esperimento LUNA (Laboratory for Underground Nuclear Astrophysics) ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). Grazie alle misure di LUNA è stato possibile affinare i calcoli della nucleosintesi primordiale, avvenuta pochi minuti dopo il Big Bang, ricavando informazioni sulla densità della materia barionica, ovvero la materia ordinaria di cui è composto tutto ciò che conosciamo.

I risultati della misura di LUNA, insieme a una discussione delle loro conseguenze cosmologiche, sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

 

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