Un punto di forza dello studio è l’uso di un test per analizzare nel sangue il ciclo cellulare dei linfociti T, cellule fondamentali della risposta immunitaria specifica. “Qualche anno fa abbiamo ideato un test che ci ha consentito di scoprire che nel sangue di topolini vaccinati ci sono linfociti T proliferanti in fase di duplicazione del DNA. Lo studio riguardava allora un vaccino sperimentale in collaborazione con la ditta Reithera”, spiega Di Rosa. “Oggi, nel nuovo studio Covid-Ip, il test ci ha consentito di identificare alcuni sotto-tipi di linfociti T proliferanti nei pazienti più gravi e di avere informazioni dettagliate sul loro ciclo cellulare, ovvero l’insieme degli eventi compresi tra la formazione di una cellula e la sua divisione in due”. La proliferazione si accompagna ad una marcata diminuzione nel sangue dei linfociti T nei pazienti Covid-19 più gravi.
“Questi risultati aprono la strada a una migliore comprensione delle funzioni dei linfociti T in questa malattia. In particolare, le alterazioni dei linfociti T potrebbero riflettere la capacità del virus Sars-Cov-2 di tenere sotto scacco la risposta immunitaria, nonostante quasi tutti i pazienti abbiano anticorpi specifici nel sangue, prodotti dai linfociti B. I linfociti T e B sono le cellule del sistema immunitario che si occupano di mediare la risposta specifica contro un agente patogeno, infatti in presenza di uno stimolo i linfociti si attivano e si riproducono velocemente per fronteggiarlo. Nel Covid-19 la risposta dei linfociti T appare disregolata”, prosegue la ricercatrice del Cnr-Ibpm. “Altro elemento correlato con la gravità del decorso clinico è la notevole riduzione dei granulociti basofili e delle cellule dendritiche plasmacitoidi. Inoltre, è stato dimostrato che l’aumento dei livelli di una triade di molecole – chemochina IP-10, interleuchina-10 e interleuchina-6 – è un segnale premonitore dell’aggravarsi della malattia più attendibile di quelli finora analizzati (proteina C-reattiva, ferritina, D-dimero)”.
Le potenziali implicazioni di questo studio, condotto su 63 pazienti ricoverati con Covid-19 presso gli ospedali Guy’s e St Thomas’ di Londra, appaiono interessanti. “Se confermate in un numero più elevato di pazienti, queste informazioni potranno rivelarsi utili a scopi prognostici, consentendo di prevedere quali siano i pazienti maggiormente a rischio di aggravarsi e di mettere così in atto tempestive e adeguate misure”, conclude Di Rosa.