Era il luogo perfetto. Empath chiudendo gli occhi ricordava e immaginava l’infinità di errori che avevano reso quel palazzo ciò che era divenuto. E pensare agli errori degli altri aumentava la sua forza, come sempre. Guardò il suo orologio. Falchi sarebbe venuto all’appuntamento in perfetto orario, ne era certo. Ma mancavano ancora diversi minuti. Sì, ancora qualche minuto, e tutto sarebbe finito, come Empath aveva progettato. Mentre aspettava, riprese a pensare alla sua condizione. Alla sua malattia. Perché la sua era una malattia. Non una malattia di cui gli altri si accorgono, né che si può curare con una medicina o qualche seccante seduta di psicoanalisi. No. Era qualcosa di più profondo, qualcosa di insito nella sua natura, da cui si sarebbe potuto liberare solo disinfettandosi l’anima stessa negli abissi di un infernale aldilà. Per quanto ne sapeva, Empath finora era l’unico ad essere affetto da quel male. Era grazie a quel male che era cresciuto, diventando ciò che era adesso. Inizialmente, aveva dei seri dubbi che si trattasse di un male. I primi sintomi li aveva manifestati fin da bambino, come gli avevano raccontato i suoi genitori. Il povero, piccolo Antonio, malgrado gli sforzi dei parenti, non ne voleva sapere di camminare. Oh, ci provava duramente. Ma ogni volta che vedeva un adulto attraversare la stanza con slanciata sicurezza, ripiombava a terra con un grosso capitombolo. Finché, un bel giorno, quel vecchio stressato di suo padre, stanco, forse ubriaco, inciampò nei suoi stessi piedi, proprio davanti al giovanissimo Antonio. Il bambino in un attimo si alzò e cominciò a camminare, a correre veloce come un ventenne. Tutto grazie a un errore. L’errore di suo padre. A scuola, Antonio non aveva mai avuto bisogno di studiare. Bastava che ascoltasse attentamente le interrogazioni di compagni che non si erano preparati, o che leggesse i compiti martoriati di errori di quelli che andavano male, e tutto su quell’argomento gli diventava perfettamente chiaro, e avrebbe potuto scriverci un trattato o tenerci un lungo e preciso discorso. Era un ragazzo molto chiuso, dicevano gli insegnanti. Riservato. Ma non sempre. Infatti, quando Antonio si appartava per spiare i ragazzi più imbranati che cercavano vanamente e goffamente di farsi ben volere dal gruppo, egli si avvicinava subito dopo, ripetendo le stesse parole del compagno, ma con un’abilità e una disinvoltura straordinarie. Non ci sarebbe mai riuscito, se non avesse prestato attenzione agli errori del ragazzo imbranato, assorbendo accuratamente ogni gesto inopportuno e parola detta male, ogni minima scheggia della sua umiliazione. Antonio aveva sempre vissuto così. Grazie agli sbagli dei suoi colleghi di lavoro era diventato caporeparto, e infine capoufficio. Ogni volta che una persona intorno a lui faceva qualcosa che nella propria mente considerava un errore, Antonio sentiva aumentare dentro di sé la sua energia, le sue capacità, la sua fiducia in sé stesso, la sua vitalità. Viceversa, e questo era davvero inquietante, ogni volta che sentiva intorno a sé che un altro aveva conseguito un successo personale, che a qualcuno era riuscito un progetto, grande o piccolo, Antonio si sentiva debole e privo di ogni certezza, come derubato da dentro della sua felicità. La domanda è… Come poteva vivere Antonio in questo modo? Come poteva allacciare relazioni sociali con un altro individuo, se tutto ciò di cui Antonio aveva bisogno da quella persona era che facesse qualcosa di dannoso per sé stessa? Semplice. Antonio, che era ormai consapevole della sua condizione, della sua malattia, doveva fingere, fingere di voler aiutare gli altri, che gli stesse a cuore risolvere i loro guai, i loro problemi, mentre in realtà faceva, e sperava, esattamente il contrario. Gli altri erano strumenti, macchine da errori che esistevano al solo scopo di permettergli di migliorare e diventare più forte con i loro insuccessi. E nessuno si era mai accorto di niente. Anche dopo che Antonio aveva perso la brocca trasformandosi in Empath, era riuscito abilmente a coprire le tracce del suo vero essere. Grazie agli errori delle forze dell’ordine, nessuno aveva scoperto che Empath, il disumano serial killer delle coppiette felici, era in realtà il mite impiegato Antonio Silvera. O almeno quasi nessuno. Falchi l’avrebbe capito entro breve. Empath stava solo accelerando i tempi. Ma, a parte Falchi, chi avrebbe potuto immaginare un collegamento fra le due identità? Anche Empath faceva fatica a ricordare come tutto questo fosse cominciato. Il suo piccolo mondo era crollato, sottoposto a eccessive pressioni dall’ambiente esterno, e lui era impazzito. Aveva cominciato a leggere libri, a guardare film polizieschi, in cui l’assassino commetteva sempre qualche errore e alla fine veniva scoperto. E quando si era sentito abbastanza pronto aveva cominciato. Le prime due vittime furono un uomo e una donna, giovani, allegri, innamorati. Un colpo al cuore per ognuno, sparato a distanza con il fucile da caccia dei suoi nonni, ed Empath si era sentito già molto meglio. Dopo un po’, tuttavia, si era accorto di non poterne più fare a meno. Aveva cominciato a rintracciare tutte quelle coppie e, aspettando il momento più opportuno, cercando di conciliare le esigenze pratiche con il momento di massima felicità, di massima empatia fra le due persone, le aveva uccise. Ben presto il serial killer era diventato il mostro numero uno della cronaca nera locale, infallibile, inafferrabile. Empath, il mostro. All’inizio non sapeva perché avesse cominciato a telefonare con il nome di Empath, camuffando la sua voce e attribuendosi i meriti degli omicidi. E perché proprio a Falchi, quel giovane poliziotto. Forse, meditava Empath le prime volte, per una sorta di sfida, come di consueto in parecchi assassini seriali. Ma no. C’era un’altra ragione. E ora finalmente Empath l’aveva afferrata. Per questo ora aveva dato appuntamento a Falchi nella casa che un tempo apparteneva ai suoi nonni. Tutto avrebbe presto raggiunto il suo apice, e la sua conclusione, come era giusto che fosse.
Empath udì sotto di sé il rumore di un calcio. Uno scricchiolio prolungato. Una breve attesa e, quasi impercettibili, i passi vanamente cauti di un uomo armato di pistola. Falchi. Il coscienzioso agente richiuse con una spinta la porta dietro di sé, come stabilito per telefono. Stava per annunciare la sua presenza, quando inciampò in una delle trappole preparate da Empath. Un ammasso di macerie crollate dal soffitto gli sfiorarono la testa, senza colpirlo (Empath aveva calcolato tutto con accuratezza maniacale), ma gettandogli negli occhi una fastidiosa polvere che avrebbe annebbiato ulteriormente la sua vista per qualche minuto. Falchi sparò un colpo e si mosse a tentoni cercando di spostarsi dalla zona di pericolo e allo stesso tempo di non perdere l’equilibrio.
“Da solo come il poliziotto di un film, Falchi! Sapevo che non mi avresti deluso.” Empath si era messo in un punto dove la sua voce rimbombava rendendo impossibile stabilirne la provenienza. Tuttavia, Falchi si sentì vagamente rassicurato. Empath aveva intenzione di parlare, non di agire, almeno per il momento.
“Ho fatto tutto quello che mi avevi detto, Empath. Esattamente come concordato.”
“Perché?”, c’era un tono falsamente deluso nelle parole di Empath, “Come sarebbe stato più semplice, per te, portarti dietro qualche agente della tua squadra, e catturare finalmente il mostro.”
“Non mi avresti dato l’appuntamento se non fossi stato sicuro di poterti fidare, giusto, Empath? O dovrei chiamarti Antonio Silvera?”
Empath sorrise. Falchi continuava a parlare, anzi, a gridare verso l’alto vagamente disorientato.
“Mi hai ossessionato per più di un anno con questa storia. Più di un anno, capisci? Ora non voglio semplicemente arrestarti. Voglio capire il motivo, sentirmelo dire da te! Qual è stato per te il senso di tutte queste morti assurde? Mi rifiuto di credere che tu sia un pazzo come gli altri. C’è qualcosa di diverso in te.”
“Io sono un pazzo, ma sono diverso da tutti gli altri.”
“Sai, negli ultimi tempi avevo sempre più il sospetto che fossi tu, Silvera. Ma stanotte mi hai fornito la certezza, dandomi appuntamento qui. Ora manca solo un tassello. Ciò che non capisco ancora è cosa ti ha fatto impazzire. E perché prendersela con le coppiette?”
“Perché?!” Improvvisamente Empath cominciò a piangere in una nuova, sconcertante rabbia.
“Anche tu non riesci a capire! Ed è naturale. Tu non hai la malattia. Nessuno ce l’ha. Eppure, in fondo, siete tutti un po’ come me. Ammettilo, Falchi, che quando qualcuno commette un errore ti senti meglio! Ammettilo! Tutti voi sani siete così, ma avete paura di ammetterlo! Siete in competizione, tutti! E’ un calderone spietato, una battaglia senza fine. Voi fingete che non sia la verità, ma allora perché quando un comico fa dei pasticci, voi vi divertite? Più gli capitano guai e fa errori, più vi lasciate andare a risate liberatorie! Vi piace, perché anche voi vi sentite deboli, imperfetti! E se vedete uno più imperfetto, allora, solo allora siete sicuri di voi stessi, ecco la realtà!”
Falchi esitò a rispondere. Si aspettava uno sfogo del genere. Ora doveva mantenersi calmo, ma deciso.
“E’ questo pensiero che ti ha permesso di conservare la salute mentale per così tanto tempo, malgrado la tua malattia, non è così, Empath? Il pensiero che, per quanto sani, c’è qualcosa di te dentro ognuno di noi. E allora cosa ti ha fatto cambiare idea?”
Empath aveva smesso di piangere, ma la sua voce aveva ancora un che di rotto e di singhiozzante. Mentre rispondeva, estrasse dalla tasca la rivoltella che aveva portato con sé, e la carezzò dolcemente.
“L’amore, Falchi. L’amore. Ecco cosa fa crollare tutta la mia arguta teoria. Fin da quando ho cominciato a crescere, ho avvertito l’amore, ma l’ho scacciato, perché mi faceva stare male. So che tu non hai mai avuto molta fortuna in amore, Falchi, è uno dei motivi per cui mi piaci. Hai mai visto due persone innamorate, Falchi, innamorate davvero? Non c’è competizione. Non vogliono sentirsi una migliore dell’altra. Sono semplicemente loro stesse, e si attraggono per questo. Sai cos’è l’empatia, Falchi?”
“Forse. Ma spiegamelo tu.”
“La capacità di immedesimarsi in un’altra persona, di comprendere i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo. E accorgersi che, più è felice quella persona, più lo sei tu. Non è… Non è bellissimo, Falchi? E’ una cosa che io non sono mai riuscito a provare. Avvertivo odio per quelle coppie che ho ucciso. Loro… mi facevano capire quanto fossi limitato e infelice. Ho cercato di ignorarlo, ma alla fine non ci sono più riuscito. L’ho fatto per sopravvivere. L’invidia, l’invidia è ciò che mi indebolisce, e io in quel momento provavo invidia verso quelle persone che riuscivano a volersi bene, gratuitamente, e traendone un profitto reciproco. Se non l’avessi fatto, se non le avessi eliminate, il dolore mi avrebbe ucciso, Falchi. Ecco, volevo che tu lo sapessi. Ma adesso… Adesso è davvero ora di farla finita con te, mio caro poliziotto.”
Falchi urtò un’altra trappola. Tre crolli, uno alla sua destra, uno alla sua sinistra, uno alle sue spalle, lo misero in una condizione di agitazione. Il senso di pericolo accelerava ogni reazione del poliziotto, aumentandone l’aggressività e l’impulsività. Empath saltò giù scivolando per una scalinata vecchia e consunta, mentre Falchi era ancora disorientato. Quando Empath gli fu davanti, con la rivoltella carica in pugno, la polvere aveva abbandonato gli occhi di Falchi e la sua vista si era abituata alle tenebre. Vide la sagoma di un serial killer pronto a vuotargli il caricatore addosso e, istintivamente, sparò. Empath cadde a terra ferito. Aveva dovuto impegnarsi molto a non approfittare degli ultimi errori di Falchi, ma ci era riuscito. E Falchi aveva vinto. Il poliziotto, resosi razionalmente conto dell’accaduto, si avvicinò al corpo rantolante di Empath ed estrasse il cellulare. Chiamò la centrale, li avvertì di sbrigarsi, e di far venire anche un’ambulanza. In quegli strazianti minuti di attesa provava una sensazione strana, quasi di …perdita. Un assassino della peggior specie era lì, morente vicino a lui, eppure nei suoi occhi agonizzanti non vedeva il mostro disumano a cui aveva tanto dato la caccia, ma un’anima sofferente che, forse, per più di un anno, aveva chiesto il suo aiuto perché lo salvasse da se stesso. Con le poche energie che gli restavano, Empath fece cenno a Falchi di avvicinarsi. Falchi aveva già preso le sue precauzioni, allontanandogli la rivoltella e controllando che non avesse altre armi. Empath sussurrò all’orecchio di Falchi.
“I… I miei genitori… non erano dei campioni di sensibilità. Dicevano sempre che io ero nato per sbaglio. Loro non mi volevano, ma avevano commesso l’errore di concepirmi e ora dovevano tenersi la conseguenza. Non molto carino, eh? Però, grazie a un loro errore, io sono nato.”
Empath scostò un attimo la testa e tossì rumorosamente. Poi si rivolse di nuovo verso Falchi. Fu il poliziotto a parlare.
“L’hai fatto apposta, non è vero? Avresti avuto tutto il tempo per farmi fuori, ma volevi disperatamente che ti sparassi.”
“Oh, sì. L’ho fatto per te. Mi raccomando, ricorda che tutta questa notte… era organizzata solo per te. Ti ho studiato negli ultimi mesi, ho cercato di conoscerti, per quanto mi fosse possibile. Questo era ciò che desideravi di più. Tu da solo, lo scenario, le rivelazioni dell’assassino, la vittoria finale del poliziotto e la morte del mostro. Sarà un bel momento per te. Cerca di godertelo. Cerca di essere felice. Anche tu mi hai fatto felice.”
Empath raccolse dentro di sé le sue ultime forze.
“Falchi… ti ho mentito. Non è vero che non ho mai avvertito quel tipo di empatia. Ma c’è una cosa che vorrei chiederti…”
Esattamente un’ora dopo, Falchi sedeva assorto su una volante della polizia ferma con la portiera aperta, in attesa di ordini. Guardò scomparire davanti a sé l’autoambulanza che trasportava via il cadavere di Antonio Silvera, meglio noto come Empath. Aveva smesso di piovere. Un altro poliziotto si avvicinò a Falchi con un’aria di ammirazione che nascondeva una malcelata invidia.
“Mi chiedo come tu abbia fatto, davvero! Ha telefonato il commissario pochi minuti fa, è arrivata una confessione firmata Antonio Silvera. Sembra proprio che, grazie a te, Empath sia stato finalmente fermato. Ma… allora perché non sei contento, dannazione?”
“Forse per le ultime cose che mi ha detto” , soggiunse Falchi, con un’espressione cupa, dubbiosa, quasi triste sul volto, “Mi ha fatto una domanda, appena prima di morire.”
“Che domanda?”, il tono nella voce dell’altro poliziotto era brusco e falsamente interessato. Falchi sospirò.
“Mi ha chiesto… “Tu mi ami?””
Emanuele Bucci
Empatia
Freddo. Glaciale, penetrante. Odore di umidità e legno marcito. Tenebre oscure, come eterni e insondabili disegni. Fuori, la pioggia. Non faceva altro che piovere, da un po’ di giorni a quella parte. C’è chi avrebbe trovato una simile evenienza tetra, o squallida, o sfortunata. Ma a Antonio Silvera, meglio noto come Empath, la pioggia era sempre piaciuta. Vedere la perfezione azzurra del cielo intaccata dall’addensarsi progressivo delle nubi, fino a quel lungo, straziante pianto di orgoglio sconfitto, lo faceva sentire bene. Come un meraviglioso errore commesso dalla volta celeste. Circondato da assi molli e travi pericolanti, Empath ora sedeva sul pavimento polveroso di quello che un tempo era stato il piano di sopra di una splendida, ricca casa di un’altrettanto prestigiosa famiglia, e che ora si riduceva a una baracca diroccata e fatiscente, in attesa disperata dell’eutanasia di una demolizione. Al centro, un enorme crollo di qualche anno prima permetteva una buona visuale del piano sottostante. Buona, per chi fosse pratico dell’appartamento e abituato a quell’oscurità.
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