Attaccamento e Percezione del Rischio

Patrizia Vermigli, Stefano Raschielli, Emanuela Rossi, Antonio Roazzi. 22 Dic 2009

RIASSUNTO

Lo scopo della presente rcerca è stato quello di studiare la relazione tra gli Stili di Attaccamento e la Percezione del Rischio. Sono state analizzate due diverse dimensioni della percezione del rischio: la gravità e la probabilità che si avveri. Ad un campione di 212 individui (101 maschi, 111 femmine) sono stati somministrati il questionario “Experience in Close Relationships” di Brennan et al. e un questionario sulla Percezione del Rischio. A conferma delle nostre ipotesi, i risultati hanno mostrato che l’attaccamento influenza la percezione del rischio nel terzo fattore “esposizione personale” e nel quarto “diversità”.

 

Introduzione

La teoria dell’Attaccamento e l’elaborazione dell’informazione

Secondo la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1980) nell’individuo fin dalla nascita è presente  un sistema motivazionale a base innata che, in caso di pericolo, ha come funzione quella di ripristinare lo stato di sicurezza. Sicurezza che dovrebbe essere offerta da chi si prende cura del piccolo. Le capacità di rispondere al pericolo in modo adeguato si sviluppano attraverso l’esperienza vissuta con la figura di attaccamento. Pertanto esiste un legame molto stretto  fra attaccamento, sicurezza e pericolo. E’ stata largamente studiata l’influenza dell’attaccamento sui processi di elaborazione dell’informazione, considerandone l’interazione tra aspetti cognitivi e affettivi.  Secondo la teoria dell’attaccamento negli individui, infatti, a seconda del tipo di relazione che avranno sperimentato con la loro figura di attaccamento, si formeranno delle rappresentazioni mentali, gli Internal Working Models, che vengono definiti come le raffigurazioni interne che l’individuo possiede del mondo, delle figure d’attaccamento e di sé e che vengono utilizzate appunto per organizzare l’informazione (Bowlby,1973; Main, Kaplan e Cassidy, 1985). Non si tratta di sistemi rappresentativi rigidi ma capaci di essere attivati e modulati dalle circostanze ambientali ed interpersonali (Bretherton, 1991). Una volta formato, un Internal Working Model tende ad organizzare le percezioni e a selezionare l’attenzione in modo da stabilizzarsi in un’ottica autoconservativa. Questi modelli tendono pertanto a mantenersi stabili e a configurarsi come caratteristiche stabili della personalità dell’individuo. Numerose sono state le ricerche che hanno dimostrato la relazione tra la qualità dell’attaccamento e diverse modalità con cui ogni individuo può elaborare l’informazione. Bowlby (1979,1980) ha descritto tre stili di elaborazione delle informazioni derivanti dai rispettivi tipi di legame di attaccamento con la figura primaria. Gli individui sicuri sono coloro che hanno sia l’accesso alle informazioni immagazzinate nella memoria, sia l’abilità di integrare informazioni emotive e cognitive nel corso dell’elaborazione. Gli individui evitanti escludono in modo difensivo dalla percezione gran parte delle informazioni rilevanti per il legame di attaccamento, hanno meno accesso a ricordi di esperienze di attaccamento ed elaborano le informazioni tralasciando quelle riguardanti lo stato emotivo. Gli individui ansiosi, percepiscono la maggior parte delle infoqíazioni correlate all’attaccamento, hanno accesso diretto ad esse e ricordano facilmente il tono emotivo associato. La funzione di valutazione dell’informazione emotiva, però, non è integrata con le informazioni cognitive. La conseguenza è che gli individui ansiosi non riescono a distinguere le situazioni minacciose da quelle non minacciose, e rimangono in uno stato di allerta, con il sistema di attaccamento costantemente attivato. Le configurazioni degli evitanti e degli ambivalenti rappresentano, pertanto, sia configurazioni di comportamento sia configurazioni di elaborazione mentale dell’informazione. Sono ambedue configurazioni distorte, che si sono sviluppate per il bisogno degli individui di adattarsi ad ambienti distorti, rinunciando anche a parti del loro sé.
Ci è sembrato molto interessante analizzare più approfonditamente l’influenza dello stile di attaccamento sulla percezione del rischio sia perché non ci risulta che in letteratura sia  stato studiato, sia per l’importanza che esso può assumere a livello sociale per comprendere meglio il fenomeno dei comportamenti a rischio  e per l’elaborazione di  strategie preventive e di intervento.

La Percezione del Rischio
Numerose sono state le ricerche che hanno voluto indagare il modo con cui l’individuo percepisce il rischio di determinati eventi. Gli studi più recenti (Chaiken & Trope, 1999; Epstein, 1994; Sloman, 1996; Slovic, Finucane, Peters & MacGregor, 2002) hanno dovuto tener conto delle moderne teorie psicologiche secondo le quali, nel momento in cui si è chiamati ad esprimere un giudizio o a prendere una decisione, ci sono due differenti modi di processare l’informazione. Il primo di questi modi è, dal punto di vista evoluzionistico, il più arcaico, il più istintivo e quindi il più immediato, meno consapevole e che sfugge al controllo cognitivo. Lavora a livello di associazioni ed analogie utilizzando le emozioni che si rivelano  utili anche come sistema di pre-allarme. La seconda modalità con cui l’individuo processa l’informazione è legata all’aspetto cognitivo della nostra mente, coinvolge cioè  la consapevolezza, il controllo, la razionalità e lavora attraverso algoritmi e ruoli come i modelli normativi di giudizio, la logica formale, il calcolo delle probabilità, soprattutto quando c’è una conoscenza reale dell’evento preso in considerazione. Ma quando le informazioni a disposizione sono incomplete o contraddittorie, gli individui, nel giudicare o stimare un evento rischioso, non si affidano al modello statistico di probabilità oggettiva, ma formulano delle stime personali che possono essere influenzate sia da una serie di parametri soggettivi quali, tra gli altri, le proprie esperienze personali (Brehmer, 1987; Weinstein, 1989), la conoscenza diretta o indiretta dell’evento (Berger, 1998), nonché la possibilità di esercitare o meno un controllo su di esso (Horrens e Buunk, 1993; Otten e van der Plight, 1996) ma anche da variabili emotive (Mehta e Simpson-Housley, 1994; Gasper e Clore, 1998) e da caratteristiche di personalità (Twigger-Ross e Breakwell, 1999; Källmen, 2000; Sjöberg, 2003).
I dati dello studio pionieristico di Fischhoff, Slovic, Lichtenstein, Read e Combs (1978) e delle successive ricerche (per una rassegna si veda: Boholm, 1998; Rohrmann, 1999), hanno fornito un quadro abbastanza omogeneo del modo in cui viene rappresentato il rischio soggettivo, nonostante le inevitabili differenze culturali e sociali riscontrate, i cui risultati rimangono tuttora validi nonostante siano trascorsi più di venti anni dalle prime indagini.
I risultati di questi studi hanno consentito a Slovic e collaboratori (Slovic, Fischhoff e Lichtenstein, 1980) di individuare un gruppo di fattori cognitivi, chiamati “fattori qualitativi”, in grado di influenzare i processi di valutazione del rischio da parte degli individui. Le tecniche psicometriche adottate (tipicamente l’analisi fattoriale e lo scaling psicofisico) hanno consentito di tracciare delle mappe cognitive dei rischi (Slovic, 1987), che definiscono una rappresentazione mentale del rischio fondata su due o tre dimensioni in grado di spiegare gran parte della varianza totale.
Il primo di questi fattori, denominato “dread risk” o rischio terrificante, è associato ai giudizi relativi al potenziale catastrofico dell’evento, alla gravità delle conseguenze, alla paura ed allo scarso controllo personale dei possibili effetti dannosi. Il secondo fattore, denominato ”unknown risk” o rischio sconosciuto, è connesso al livello di osservabilità del rischio, al grado di conoscenza individuale e della comunità scientifica dell’evento rischioso, alla novità e alla volontarietà dello stesso. Il terzo fattore è associato sia al grado di esposizione personale alla fonte di rischio che al numero di persone esposte.

Dall’esame della letteratura sulla percezione del rischio, emerge come, nelle ricerche iniziali, la categoria di rischio più frequentemente utilizzata fosse quella dei “rischi tecnologici”, categoria tradizionalmente oggetto di studio dell’analisi statistico-probabilistica o “Risk Analysis”. In seguito, anche in ricerche nazionali (Savadori, Rumiati, Bonini e Pedon, 1998b; Martinez-Arias, Prades, Arranz e Macias, 2000; Savio, Savadori, Nicotra e Rumiati, 2003), sono state indagate nuove tipologie di eventi rischiosi (di matrice ambientale, sanitaria ecc.), che hanno permesso di ampliare lo spettro qualitativo del concetto di rischio, introducendo anche situazioni e realtà più vicine alla vita quotidiana.
In una nostra recente ricerca (Vermigli, Raschielli, Rossi, Roazzi, 2009) abbiamo seguito questa direzione, introducendo nuovi rischi, alcuni dei quali afferiscono all’area medico-sanitaria (SARS, BSE, assunzione di psicofarmaci, ecc.), altri sono riconducibili alla sfera della socialità, dello stile di vita, dei rapporti e delle relazioni sociali. Con questa scelta abbiamo voluto rappresentare situazioni, quali quelle della multietnicità e del confronto con la diversità (culturale, religiosa, di orientamento sessuale), percepite dalla popolazione italiana con preoccupazione, come emerge da alcune indagini del Censis condotte sul territorio nazionale negli anni 2003 e 2004 (per la composizione dei vari fattori vedi appendice A).
Inoltre, abbiamo ritenuto fosse importante differenziare due aspetti della percezione di un evento rischioso: la gravità del rischio e la  probabilità che ha di verificarsi (Tab. 1). Dall’esame della letteratura sull’argomento, è emerso che anche altre ricerche hanno utilizzato, queste due diverse dimensioni (Martinez-Arias, 2000; Martinez-Arias et al., 2000; Arranz, Macias, Prades, Martinez-Arias e Sola, 2000; Martinez-Arias e Prades, 2004). Le differenze emerse, nel nostro studio, tra le due dimensioni hanno confermato la validità delle nostre ipotesi. I primi due fattori presentano punteggi più elevati nella scala di gravità che in quella di probabilità, questo è dovuto alla natura degli eventi rischiosi rappresentati in questi fattori; infatti sono presenti sia dei rischi dalle conseguenze particolarmente gravi (nel fattore 1) sia dei rischi che fanno riferimento ad attività o situazioni nuove o poco conosciute (nel fattore 2). In entrambi i casi la stima di questi rischi è condizionata dallo scarso controllo personale o collettivo che si può esercitare e dalla scarsa familiarità degli eventi rischiosi. Il terzo fattore riguarda invece eventi considerati meno pericolosi e i cui effetti sono ritenuti più controllabili dall’individuo, trattandosi di rischi a cui ci si espone in maniera volontaria, spesso con una regolarità che li rende familiari. Pertanto sono percepiti meno gravi, ma più probabili. Queste caratteristiche rendono la stima di questi rischi soggetta a frequenti errori o distorsioni cognitive e all’uso di procedure inferenziali conosciute con il nome di euristiche.  Il quarto fattore da noi denominato “diversità” presenta un andamento simile al terzo fattore, risulta cioè meno grave che probabile. In questo caso l’interpretazione che si può avanzare è che l’approccio con il diverso sia ormai considerato un fatto culturalmente acquisito e l’inserimento nel mondo della scuola o del lavoro di persone di cultura o stile di vita diversi dalla propria non è più percepito come una minaccia, forse anche perché fatti del genere cominciano a diventare frequenti, quindi familiari e conosciuti.

 

Differenze individuali nella percezione del Rischio
Dalle numerose ricerche sul rischio emerge che tra i fattori in grado di influenzare la percezione notevole peso viene dato alle differenze individuali legate al genere, all’età dei partecipanti, alla genitorialità e all’expertise, mentre meno studiate risultano le caratteristiche di personalità .
Il genere è la variabile con maggiori riscontri empirici: le donne tendono a valutare i rischi in modo più severo rispetto agli uomini, esprimendo una maggiore preoccupazione (Viscusi,1991; Flynn, Slovic e Mertz, 1994; Davidson e Freudenburg, 1996; Slovic, 2000; Lundborg and Anderson, 2006), anche se da alcuni interessanti studi emerge che se anche questa differenza di genere esiste a livello quantitativo, ad un’analisi qualitativa, risulta che essa è da attribuire anche ad altri elementi come il tipo di rischio, i diversi significati ad esso attribuiti, le relazioni di potere tra uomo e donna, ecc. (Bronfman et al., 2003). Anche i nostri risultati vanno in questa direzione: si sono ottenute delle differenze statisticamente rilevanti tra i valori di stima del rischio espressi dalle donne rispetto a quelli espressi dagli uomini nei primi due fattori, Rischio Terrificante e Rischio Sconosciuto, sia a livello di gravità che di probabilità. Non risultano invece differenze significative tra uomini e donne per quanto riguarda il terzo e il quarto fattore, corrispondenti a Rischio Esposizione Personale e Rischio Diversità (Tab. 2).

 

Tabella 2. Analisi di Kruskal-Wallis considerando come variabili indipendenti Expertise, Sesso e Genitorialitá e come variabili dipendenti i quattro fattori di rischio  per le due dimensioni: Gravitá e Probabilità

 

 

* Nota: Expertise = Media 1 Esperto, Media 2 Non-Esperto; Sesso = Media 1 Maschio, Media 2 Femmina; Genitorialitá = Media 1 Genitore, Media 2 Non Genitore.

 

Con riferimento all’età, i risultati presenti in letteratura mostrano, generalmente, che le popolazioni giovanili sono meno preoccupate dei pericoli, in confronto a campioni di età più avanzate. Ciò produce una stima meno grave dei rischi e delle possibili conseguenze (Hellesoy, Gronhaug e Kvitastein, 1998). Anche dai nostri risultati  emerge che le stime di rischiosità da parte del gruppo dei giovani, relativamente al terzo fattore, Rischio Esposizione Personale, sono di entità inferiore a quelle espresse dal gruppo di soggetti di età superiore ai 30 anni, sia a livello di gravità che di probabilità del rischio. Possiamo affermare che, il giudizio sottostimato fornito dai giovani possa essere attribuito ad atteggiamenti ed assunzioni valoriali di iper-fiducia nelle proprie abilità che sono in grado di alterare e viziare la percezione soggettiva del rischio, come sappiamo dagli studi sulle euristiche e sui bias cognitivi (Kahneman, Slovic e Tversky, 1982; Savadori, Rumiati e Pietroni, 1999; Rumiati e Bonini, 2001).
In riferimento alla genitorialità si sono riscontrate differenze significative sia a livello di gravità che di probabilità in relazione al fattore 3 “Rischio Esposizione Personale”: il gruppo dei genitori valuta come più alta sia la gravità che la frequenza di accadimento degli eventi rischiosi associati a questo fattore. Le situazioni che vengono prese in considerazione prevedono l’ esposizione individuale al rischio dovuta all’uso del motorino,  dell’automobile e al far uso di bevande alcoliche e quindi di guidare in stato di ebbrezza che più di altri possono richiamare alla mente condotte giovanili o adolescenziali. Possiamo ipotizzare che la presenza di una relazione affettiva coinvolgente (come quella genitore-figlio) induca i genitori a sovrastimare la probabilità di accadimento dell’evento rischioso. Come se lo stimolo (l’evento rischio) attivi nel genitore uno stato d’animo (la preoccupazione o la paura) in grado di alterare la percezione del rischio.
Un altro dei fattori che sembra influenzare le stime dei rischi è il livello di expertise del valutatore. Tale effetto è stato studiato in una ricerca di Slovic, Fischhoff e Lichtenstein (1980) dalla quale sono emerse nitidamente alcune differenze nella percezione del rischio dei tre diversi gruppi di persone non-esperte rispetto al gruppo di esperti, il cui giudizio è altamente correlato con le stime obiettive, più di quanto lo fosse quello dei soggetti non esperti (lay people). Questi ultimi sono coloro che possiedono poche conoscenze scientifico-tecnologiche (Miller, 1998) e pertanto nel momento in cui sono chiamati ad esprimere un giudizio sulla rischiosità di determinati eventi si affidano alle loro esperienze personali piuttosto che alle conoscenze in loro possesso.  Anche da altre ricerche (Slovic, Malmfors, Krewski, Mertz, Neil e Bartlett, 1995) emerge che il fattore “expertise” è in grado di differenziare gli individui nella percezione del rischio, tuttavia dai risultati di altri studi (Savadori, Rumiati, Bonini e Pedon, 1998) i ricercatori hanno notato che le stime di rischiosità della gente comune non sono sempre di entità superiori a quelle espresse dagli esperti, deducendo che in determinati contesti non sarebbe statisticamente plausibile parlare di differenze tra i due gruppi (Savio, Savadori, Nicotra e Rumiati, 2003). Infatti, la differenza tra esperti e non esperti emerge per i rischi di natura scientifico-tecnologica laddove cioè, il fatto di possedere conoscenze specifiche, porta ad una valutazione della probabilità del rischio più aderente alla realtà (Kletz, 1996). Va tenuto conto che non sempre gli esperti concordano sul risk assessment e che sono anch’essi soggetti a possibili fonti di distorsione (Rowe e Wright, 2001).
Per quanto riguarda i dati della nostra ricerca  i risultati fanno emergere differenze statisticamente significative sulla stima del rischio da parte del campione degli “esperti” rispetto ai “non esperti”, sia a livello di gravità che a livello di probabilità nei primi due fattori, il Rischio Terrificante e Rischio Sconosciuto, e solo a livello di probabilità in relazione al fattore 4, Rischio Diversità.
Alla luce di quanto emerge dagli studi sulla percezione del rischio abbiamo ritenuto utile fornire un ulteriore contributo alla conoscenza della percezione del rischio che offrisse una visione integrata della variabilità della percezione del rischio a livello di dimensioni, tenendo separata la valutazione in funzione della gravità e della probabilità di accadimento; a livello di situazioni, includendo fenomeni sociali emergenti nel contesto italiano come quelli legati alla precarietà del lavoro o alla relazione con la multietnicità; a livello di differenze individuali studiando l’influenza di variabili quali il genere, l’età, il livello di istruzione, la genitorialità, l’expertise ma anche considerando una tra le caratteristiche di personalità che pensiamo che possa maggiormente influenzare il modo di processare l’informazione cioè lo stile di attaccamento.
L’ ipotesi che avanziamo è che l’attaccamento, lungo l’asse sicurezza/insicurezza, sia in grado di modificare la percezione del rischio degli individui.
Pur mantenendo distinte le valutazioni a seconda delle due dimensioni, gravità e probabilità, in questo articolo riportiamo i dati relativi all’influenza dell’attaccamento rispetto ai quattro fattori emersi.

 

Metodo

Caratteristiche del campione
Il nostro campione è costituito da 212 partecipanti, residenti nel Lazio, 101 maschi (47,6%) e 111 femmine (52,4%), di cui 97 esperti (45,8%),  di età compresa tra i 20 e i 66 anni (età media di 40,7 anni). L’area professionale da cui è stato tratto il campione di esperti è quella della ricerca.
Il campione secondo il titolo di studio risulta così suddiviso: 8 con licenza media (3,8%), 88 con diploma di scuola superiore (42,1%), 113 con laurea (54,1%), di cui 89 con laurea tecnico-scientifica (42,6%) e 24 con laurea umanistica (11,5%).

Strumenti d’indagine
Per svolgere il presente lavoro di ricerca abbiamo utilizzato un questionario per la misura della percezione del rischio costituito da 56 item, in relazione a ciascuno dei quali è stato chiesto di dare una valutazione sia della gravità del rischio  che della sua probabilità di accadimento,  utilizzando una scala Likert adattata con valori da 1 a 4. Le analisi fattoriali hanno fatto emergere quattro fattori. In particolare nel fattore I, che può essere etichettato come “Rischio terrificante”, è rappresentato da una serie di rischi, legati a sostanze, tecnologie o comportamenti, considerati anche in letteratura (Rumiati e Savadori, 1999) dalle conseguenze estremamente gravi, il cui potenziale catastrofico è fatale e incontrollabile e i cui effetti dannosi possono estendersi anche alle generazioni future oltre a risultare indipendenti dalla volontà del singolo individuo.Questo fattore presenta un elevato indice di omogeneità interna, il più alto tra i quattro fattori, che rende coerenti tra di loro gli item che lo rappresentano (alpha di Cronbach gravità 0.93, probabilità 0,95).
Il Fattore 2 che può essere indicato come “Rischio sconosciuto” è composto da item che abbracciano campi diversi e che sembrano anche molto distanti tra loro. Il denominatore comune sembra essere proprio il fatto che le conseguenze di questi tipi di rischio non sono conosciute e pertanto la percezione della loro gravità è legata al grado di conoscenza e familiarità che si ha della sostanza, tecnologia o comportamento, sia da parte delle persone che da parte della scienza, alla non osservabilità delle conseguenze, all’assunzione involontaria del rischio, al timore di essere esposti a effetti dannosi differiti, a lungo termine. La coerenza interna del fattore è testimoniata dall’alto coefficiente dell’alfa di Cronbach, (alpha di Cronbach gravità 0.90, probabilità 0,87) che è in grado di intercettare in campi così diversi del sapere (le nuove tecnologie industriali e i nuovi campi del sapere della scienza, le recenti tematiche ambientali e i rischi dovuti alla riforma del sistema pensionistico), le caratteristiche proprie di questo fattore.
Il Fattore 3 può essere definito come “Esposizione personale” ed è collegato al grado di esposizione effettiva sia personale che collettiva all’evento rischioso, alle conseguenze personali e, talvolta, anche alle caratteristiche del rischio nell’ottica del rapporto costi/benefici: per es. nell’evento “Intervento chirurgico” risulta evidente il pericolo che si corre sottoponendosi all’intervento, tuttavia, in maniera del tutto generale, ci si sottopone agli interventi chirurgici consapevoli che i benefici che se ne traggono sono superiori ai rischi che si corrono. Questo fattore non è sempre presente in letteratura, specialmente negli studi rivolti alla popolazione adulta. Invece, alcuni rischi legati all’utilizzo imprudente di mezzi di trasporto o all’uso eccessivo di bevande alcoliche, sono tra gli eventi rischiosi che più emergono nelle ricerche svolte sulla percezione del rischio negli adolescenti (Bonino e Cattelino, 1998). Nella presente ricerca questo terzo fattore presenta un indice di omogeneità interno molto elevato (alpha di Cronbach gravità 0.82, probabilità 0,80). Dall’esame dei singoli item si può notare che un elemento che li accomuna è il fatto che l’esposizione alla fonte di rischio si riferisce a comportamenti legati ad azioni che ogni individuo può svolgere nella quotidianità e la cui pericolosità dipende dall’uso improprio o incauto che ne viene fatto (andare in bicicletta, in moto, alpinismo), alla valutazione nel rapporto costi/benefici e all’esposizione volontaria al rischio.
Il Fattore 4 può essere denominato come “Rischio diversità” (alpha di Cronbach gravità 0.75, probabilità 0,78)  ed è legato al concetto di relazione, e incontro con l’altro, inteso sia come individuo che come gruppo, al grado di novità e familiarità con tale evento e alle sue conseguenze personali o collettive.
Si tratta di un nuovo fattore, che non ci risulta essere stato mai individuato da nessuna ricerca in campo psicometrico, che riguarda una tipologia di rischio o, per meglio dire, preoccupazione sociale, collettiva, molto sentita nella realtà italiana, e, per queste ragioni, è stata da noi individuata ed estrapolata da alcune ricerche locali e nazionali condotte da autorevoli istituti di ricerca come il Censis.
Sono stati inoltre rilevati alcuni dati socio-demografici, quali l’età, il sesso, la professione e l’essere o meno genitori.
Un secondo questionario, L’ECR (Experiences in Close Relationships) di Brennan, Clark e Shaver (1998) validato anche in Italia (Picardi, Vermigli, Toni, D’Amico, Bitetti e Pasquini, 2002), è stato utilizzato per la misura dello stile di attaccamento. Gli autori ritengono che l’amore romantico possa essere concepito come un vero e proprio processo di attaccamento, in cui le differenze individuali riportate nelle esperienze di innamoramento sono legate ai ricordi delle relazioni avute coi genitori nel corso dell’infanzia. ed è costituito da due sottoscale di 18 items ciascuna, le quali misurano rispettivamente la dimensione “Evitamento” (α di Cronbach =  0,88) e la dimensione “Ansietà” (α di Cronbach = 0,90) nelle relazioni di coppia. I sette livelli della scala vanno da completamente falso a completamente vero. I partecipanti che hanno punteggi alti nella scala evitamento sono coloro che mostrano un modo d’amare che si basa essenzialmente nel mantenere le distanze dal partner (appena il mio partner inizia a diventare più intimo, mi rendo conto di allontanarmi) e sul provare disagio nei rapporti intimi (ho difficoltà ad aprirmi al partner). I punteggi alti nella scala ansietà stanno ad indicare una relazione affettiva basata sul timore e sulla diffidenza (ho bisogno di molte rassicurazioni sul fatto di essere amato dal mio partner).

 

Procedure
E’ stata fornita ai partecipanti una breve presentazione della ricerca, esponendo le ragioni e le finalità dell’indagine, con la rassicurazione del rispetto della privacy. Le istruzioni per la compilazione  dei questionari sono state fornite in forma scritta e orale in modo da chiarire eventuali dubbi del partecipante. La compilazione dei questionari è avvenuta individualmente, sono stati lasciati al partecipante stabilendo il giorno in cui il ricercatore li avrebbe ritirati.

 

Risultati


Fattori di rischio e stile di attaccamento
Prima di mostrare i risultati relativi alle correlazioni tra i fattori di rischio e l’attaccamento sono state effettuate delle analisi della varianza per controllare l’ esistenza di differenze di genere nelle due scale, ansia ed evitamento. I risultati mostrano che non  risultano differenze significative tra uomini (ansia M = 62,15; Evit. M = 39,7) e donne (ansia M = 62,98; Evit. M = 35,8) né in relazione all’Ansia (p< .73) né all’Evitamento (p<.06). L’Evitamento tuttavia evidenzia una differenza marcata, anche se non significativa, tra uomini e donne, dove gli uomini presentano la media più elevata .
La dimensione dell’ansia, sia per quanto riguarda la gravità che per quanto riguarda la probabilità, correla in maniera significativa con i fattori Esposizione Personale e   Diversità. Non risultano correlazioni significative con gli altri due fattori (Tab. 3).

 

Tabella 3. Correlazioni tra i quattro Fattori di Rischio e le variabili Ânsia (Pearson) e Evitamento (Pearson).

 

 

E’ interessante notare che il terzo e il quarto fattore, pur presentando le medie più basse in entrambe le scale, sono ritenuti come quelli più minacciosi da coloro che esprimono alti livelli di ansia: questo sembra fornire prove a sostegno della distinzione tra rischi che evocano allarme perché oggettivamente sono pericolosi da quelli che evocano ansia a prescindere dalla loro pericolosità (Shaver e Mikulincer, 2002) ma che sono in grado di attivare il sistema di attaccamento. Sembra evidente che ciò su cui l’ansia agisce nella rappresentazione del rischio non è l’elemento terrificante o catastrofico dell’evento (presente nel fattore 1), né l’incontrollabilità dei suoi effetti (fattore 2), ma è l’aspetto della fiducia in se stessi, del senso di autoefficacia inteso come capacità di far fronte agli eventi stressanti, come sono gli eventi rischiosi presenti nel fattore 3. Tanto più marcate saranno le credenze autovalutative negative del soggetto ansioso, tanto più svaluterà le proprie prestazioni pratiche e le proprie capacità di autocontrollo emotivo del rischio, che quindi sarà giudicato più grave e più probabile.
Relativamente al fattore Diversità, invece, l’ansia correla con l’aspetto della relazione, dell’incontro/confronto con l’Altro: il confronto con la diversità, la possibilità di interagire con l’Altro viene percepito come fonte di pericolo e di allarme, più alta è l’ansia, maggiore è la percezione di pericolosità associata a quest’ultimo fattore. Possiamo supporre che la forte correlazione tra ansia e stima della probabilità dei fattori 3 e 4 sia attribuibile alla strategia di iperattivazione di regolazione affettiva degli ansiosi, che sappiamo tendere ad amplificare la severità delle situazioni e degli eventi, esagerandone le conseguenze, o nel caso specifico, la loro percezione di accadimento.
Per quanto riguarda la dimensione dell’evitamento, troviamo una correlazione significativa solo con la percezione di gravità del fattore Rischio Diversità, mentre non risultano correlazioni con gli altri fattori, né sul piano della gravità né su quello della probabilità. Più alto è il livello di evitamento, maggiore risulta essere la valutazione della gravità del rischio associato a questo fattore. Questo risultato, unitamente all’analogo dato degli ansiosi, conferma ciò che la letteratura riporta a proposito del senso di sicurezza, dove la persona sicura si pone rispetto ad un evento minaccioso in modo da renderlo affrontabile e gestibile, mentre gli insicuri proprio sul piano dell’elaborazione dell’informazione, anche di quella minacciosa, presentano una maggiore rigidità o non flessibilità nell’integrare nuove informazioni nella propria struttura cognitiva, con un più marcato ricorso agli stereotipi, una ridotta curiosità e una minore tendenza all’esplorazione.
Sembra che l’essenza stessa degli item del fattore 4 imponga ai soggetti insicuri di confrontarsi con aspetti della sfera relazionale (l’idea di una relazione, di un confronto con l’altro) verso cui per ragioni diverse, sia gli ansiosi che gli evitanti manifestano disagio, sofferenza e dolore.
Il modello relazionale richiamato dagli item, sembra intercettare nell’evitante la sua abituale ritrosia al coinvolgimento nelle relazioni interpersonali, dalle quali ha imparato a mantenersi distante. In questo caso, al contrario di quanto fa il soggetto ansioso, che mantiene una strategia di ipervigilanza verso le possibili fonti di minaccia, il soggetto evitante anticipa e mantiene, appunto, una separazione mentale ed emozionale da queste, considerate fonti minacciose.


Discussione e Conclusioni


L’ampia letteratura sulla percezione del rischio ha fornito una rappresentazione multidisciplinare e trasversale del concetto di rischio. Malgrado in questi ultimi anni ci sia stato un forte interesse della comunità scientifica rispetto all’influenza delle caratteristiche di personalità sulla percezione del rischio, non ci risulta ci siano stati lavori che abbiano preso in considerazione la relazione tra percezione del rischio e stili di attaccamento. E questo nonostante il fatto che numerose ricerche abbiano focalizzato l’attenzione sui Modelli Operativi Interni e sul loro ruolo nel modo di processare l’informazione. Bowlby stesso enfatizza la funzione di questi Modelli nella reazione dell’individuo dinanzi a situazioni allarmanti, anzi è proprio di fronte al pericolo (reale o atteso) che si attiva il sistema di attaccamento. Abbiamo pertanto ipotizzato l’esistenza di differenze nella percezione del rischio a seconda dei diversi stili di attaccamento anche se i rischi vengono presentati solo in forma di rappresentazione mentale e non riguardano necessariamente un’esperienza realmente esperita dal soggetto.
Per quanto riguarda l’influenza dello stile di attaccamento, si è visto che la dimensione dell’ansia incide sulla percezione del rischio legato alla sfera dell’individuo e relazionale (fattori 3 e 4) sia a livello di gravità che di probabilità. Abbiamo ritenuto interpretare questo risultato alla luce della specifica strategia di iperattivazione di regolazione affettiva degli ansiosi, che tende ad amplificare la severità delle situazioni e degli eventi, esagerandone le conseguenze, anche in riferimento a situazioni della vita di tutti i giorni. Questa tendenza si esprime, nel caso specifico, anche nella più alta stima di accadimento degli eventi associati al terzo fattore.
In relazione al quarto fattore, possiamo osservare che il tema della diversità, nelle sue varie manifestazioni, ne sollecita l’aspetto relazionale, del confronto con l’altro, visto sia come singolo che come gruppo. Questo è il tema significativo su cui si innesta la dimensione dell’ansia. Si può supporre che l’aspetto relazionale, del confronto con un altro, il “diverso”, provochi nell’ansioso una certa preoccupazione, forse addirittura una sensazione di minacciosità o pericolosità. Sappiamo dagli studi sull’argomento che gli insicuri sul piano cognitivo manifestano una rigidità ad integrare le nuove informazioni nelle proprie strutture cognitive. Questo certamente non migliora la capacità dell’ansioso di affrontare, adattandovisi, la complessità e la mutevolezza del mondo (Mikulincer, 1997). Inoltre la letteratura (Mikulincer e Shaver, 2001) ci ha mostrato che l’ ansioso tende a percepire gli individui dei gruppi socialmente e culturalmente diversi dal proprio in termini fortemente negativi, ricorrendo più frequentemente all’”intergroup bias”, una tendenza a percepire i membri di gruppi diversi dal proprio in termini negativi e a giudicarli pericolosi e minacciosi.
La dimensione dell’evitamento, invece, incide sulla percezione del rischio associato al quarto fattore esclusivamente a livello di gravità.
Anche in questo caso è il fattore Diversità ad essere correlato con l’evitamento. E’ sempre il piano relazionale che esalta la risposta dell’evitante, per ragioni che, seppur diverse dagli ansiosi, risultano essere disadattive rispetto al pattern della sicurezza. Riteniamo che gli evitanti di fronte a eventi o situazioni ritenute pericolose, come quelle proposte dagli item del fattore 4, mettano in atto gli stessi stili di regolazione cognitiva ed emozionale che sono loro propri. Sul piano cognitivo, gli evitanti si caratterizzano per scarsa flessibilità nell’integrare nuove informazioni nel proprio sistema cognitivo, preferendo ricorrere a stabili stereotipi, in caso di giudizi sociali, piuttosto che sostenere l’ambiguità cognitiva che le nuove informazioni provocano e preferendo fermarsi alle conoscenze consolidate o “primacy effect” (Mikulincer, 1997). Gli evitanti presentano infine una scarsa curiosità intellettuale. Sul piano affettivo, invece, si caratterizzano per una minimizzazione dell’affettività che provoca un’autosufficienza affettiva e un distacco dalle interazioni sociali, viste come un peso, un ostacolo al raggiungimento dell’autonomia, loro traguardo. Gli evitanti, al contrario degli ansiosi, quindi, tendono a mantenere una distanza tra loro stessi e la o le fonti che provocano loro preoccupazione e angoscia. L’adozione di tale strategia sembra in grado di fornire una spiegazione al perché nella scala probabilità non vi sia alcuna correlazione tra evitamento e i 4 fattori.
Alla luce dei risultati di questo nostro studio emerge una rappresentazione del rischio molto articolata e composita che non esaurisce tutte le possibilità che un costrutto così complesso offre allo studio ed alla sperimentazione ma intende costituire un ulteriore fonte per nuovi spunti di confronto e di ricerca.

 

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Patrizia Vermigli*  Stefano Raschielli** Emanuela Rossi * Antonio Roazzi***


*Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del C.N.R.
**Istituto Superiore Protezione Ricerca Ambientale (ISPRA)
*** Universidade Federal de Pernambuco, Recife, Brasile

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Settembre 2009 10:26
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