Guerra civile

Emanuele Bucci 31 Ago 2009

in Fantascienzaonline

Era convinta che sarebbe arrivata per prima. Quando Cinzia entrò nella stanza che presto avrebbe ospitato la riunione del pomeriggio, vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di trovare. Posto nel centro esatto del tavolo, come una decorazione o un vaso di fiori. Un bambino. C’era qualcosa di insolito, bizzarro in lui. Dalla statura e dall’aspetto gli si sarebbero dati non più di cinque o sei anni. Un ragazzino robusto, colorito, all’apparenza in ottima salute. Eppure non correva, non saltellava, non si lamentava di trovarsi lì tutto solo. L’intrusione di Cinzia lo lasciò totalmente indifferente. Gli unici movimenti che compiva quasi meccanicamente erano quelli della mano e della testa, intenti rispettivamente a voltare e a leggere le pagine di un gran librone di fiabe pieno di vivaci e suggestive illustrazioni.
Cinzia si guardò intorno. Come era arrivato lì quel bambino? Doveva avercelo portato qualcuno che avesse le chiavi della stanza, un vecchio e squallido appartamento che una volta fungeva da ripostiglio. Un locale un tempo governato dalla polvere e abitato da oggetti inutili e dimenticati. Ora che da qualche anno era stato sgomberato e adibito a sala per le riunioni condominiali, aveva cambiato sia regime che sudditanza. Era sempre il posto più trascurato e angusto dell’intero palazzo, ma adesso senza alcun dubbio era anche il più odiato. Ora a regnare erano i conflitti e le meschinità, e a risiedervi saltuariamente le urla, le imprecazioni e gli insulti che costituivano il principale passatempo comune degli inquilini.

E a chi toccava l’ingrata responsabilità di custodire lo strumento di accesso a quel piccolo, inquieto anfratto di mondo? Solo a Cinzia, e alla donna delle pulizie. Già, come se nelle ultime settimane qualcuno fosse venuto lì anche solo per passare lo straccio. L’odore di chiuso saltava al naso dopo il primo passo, abbordando le narici con la sgradevole veemenza di un arpione. No, negli ultimi giorni non era entrato nessuno. Quella vecchia sfaticata al piano terra non spazzava neanche quando le foglie d’autunno facevano scivolare i visitatori davanti al portone, figurarsi se si scomodava ad aprire la “stanza maledetta” e ad aumentare di almeno un’ora la sua monotona attività. Ma se non era entrato nessuno dall’ultima riunione, come si spiegava quell’esserino a poca distanza da Cinzia? Un bel mistero.
“Ciao. Come ti chiami?” Cinzia pronunciò quelle parole come se avesse dovuto rigurgitarle dallo stomaco. Non le piacevano i bambini, si sentiva a disagio con loro. Amava i suoi figli, ma ringraziava il cielo che fossero diventati in fretta adulti. Era stato con il suo primogenito, quando scoprì di non avere la benché minima sintonia con le creature minori di sette o otto anni, che aveva cominciato a vergognarsi di sé stessa. “Una donna che non ama i bambini, che razza di donna è?”, le diceva suo marito. Cinzia avrebbe tanto voluto che fosse stato diversamente, ma se non era in grado di frenare l’aumento delle pulsazioni, l’alzarsi della voce, la crescita dell’ansia e tutte quelle istintive reazioni che la sorprendevano ogni volta che aveva a che fare con un bambino, come poteva sperare di cambiare? Erano fragili e indifesi, ma anche imprevedibili, incoscienti. Cinzia non aveva mai creduto alle storie secondo cui i bambini fossero più innocenti, più dolci e generosi rispetto agli adulti. Non avevano la capacità fisica di fare del male concreto, eccetto che a sé stessi o a un coetaneo, eppure già dimostravano aggressività, egoismo, egocentrismo. Sì, erano convinti di essere al centro dell’universo. Non avevano sviluppato quella sensibilità che permette di considerarsi all’interno di una comunità di propri simili con le medesime esigenze. C’erano solo loro stessi. E gli altri dovevano dare, dare, parenti o insegnanti o chiunque altro. Dare, dare. Mai ricevere. Certo, molti adulti, forse tutti gli adulti, in fondo, ragionavano in questi termini, ma la maggior parte di essi almeno nascondeva questo aspetto della propria natura sotto una patina più o meno sottile di civiltà. I bambini no. Erano spontanei. Tremendamente spontanei. L’essere umano nudo e crudo, senza ipocrisie. Per questo Cinzia aveva paura dei bambini, di tutti i bambini, anche di quello di fronte a lei, così irrealmente assorto.
Il fanciullo ignorò la domanda di Cinzia, non si voltò neppure. Lei osservò da vicino il libro di fiabe. Provò una sorta di brivido nel constatare interdetta che le parole scritte fra le illustrazioni non avevano alcun senso. Non si trattava di una lingua straniera, erano una massa di caratteri disposti alla rinfusa. Eppure il bambino li seguiva con attenzione, scrutandoli, contemplandoli come se fossero stati la cosa più preziosa e affascinante dell’universo.
Cinzia non aveva tempo di soffermarsi sull’assurdità di quella situazione, doveva fare qualcosa, liberarsi di quel marmocchio prima che gli altri cominciassero ad arrivare per la riunione. Cosa avrebbe dovuto fare, trascinarlo fuori dalla stanza?
“Ehi, mi ascolti? Non puoi stare qui, abbiamo da fare! Io… Tu… Accidenti, dove sono i tuoi genitori?”
D’un tratto il ragazzino smise di leggere. Con un movimento lento e misurato della testa fece convergere il suo sguardo con quello di Cinzia. Poi la manina paffuta si avvicinò alla guancia di quel volto segnato da sessant’anni di vita e lo carezzò con una tenerezza quasi sconvolgente.
“Tu sei la mia mamma?” Il tono era tranquillo, la voce flebile ma priva di inflessioni. Cinzia fissò il bambino senza rispondere, turbata nello sguardo e nella mente, ma improvvisamente rilassata nel cuore. Continuò a lasciarsi accarezzare come faceva nel suo sogno, quel sogno di cui aveva un ricordo così intenso ma così lontano, che faceva sempre da ragazza, prima di sposarsi. Quel sogno in cui la mano apparteneva all’uomo che da giovane tanto aspettava. Quel sogno dove lei era felice.
“Ma bene, signora Celi. Non è un po’ troppo vecchia, per un bambino?”
“Oh, Miki, alla signora Celi non piacciono i bambini, vedi come sta soffrendo?”
Se Cinzia avesse avuto un coltello, una pistola o qualsiasi altra arma abbastanza offensiva, l’avrebbe immediatamente usata contro i due individui che avevano appena fatto capolino. Chiunque avrebbe potuto riconoscerli anche dopo averli incontrati una sola volta, semplicemente dalle loro voci, querule e insopportabili. I fratelli Brescia. Michele e Marisa Brescia, per gli amici Miki e Mari. Sempre che avessero avuto amici. Una cosa che Cinzia non sopportava di quei due era che, malgrado avessero entrambi più di quarant’anni, si comportavano come quindicenni, e della peggior specie, i due ragazzacci cinici e opportunisti che trovavano sempre il modo di spuntarla. Lei era avvocato, lui direttore d’azienda. Non se la passavano certo male, economicamente. Per la verità, di appartamenti ne possedevano talmente tanti che forse si tenevano scritti gli indirizzi da qualche parte, per ricordarseli tutti. Pensare che Cinzia li conosceva da quando erano ragazzi, due pezzenti che vivevano a scrocco nel suo stesso palazzo, in un cubicolo sudicio con due genitori inesistenti che li trattavano come pezze. Sugli adorabili Michele e Marisa si diceva che avessero truffato una vecchia possidente per ottenere una cospicua rendita, quindi la madre era morta (c’era chi sosteneva le avessero dato una mano i figlioletti con qualche goccia di medicina di troppo) e il padre sbattuto a marcire in una clinica con la delicatezza di chi getta la cartaccia di una caramella. Questi pettegolezzi potevano essere veri in parte, per nulla o completamente, Cinzia non lo sapeva. La vera certezza era una. Ogni volta che Michele e Marisa Brescia partecipavano a quelle riunioni, era per rimpinzare placidamente il portafoglio di Miki grazie ai provvidenziali consigli legali di Mari. Così ogni tanto scappava fuori qualche irregolarità imprevista, partiva un’immancabile querela, e la solita vittima sacrificale era costretta a risarcire i diretti interessati.
Appena arrivati, i fratelli Brescia cominciarono a discutere sul posto dove sedersi. Qualsiasi occasione, anche la più puerile, costituiva per loro il pretesto per lanciarsi addosso una trafila di commenti al vetriolo. C’era una sola cosa che i fratelli Brescia apprezzavano di più che tormentarsi a vicenda. Coalizzarsi per tormentare gli altri.
Fu Michele il primo a tornare sulla questione del bambino, che non ne voleva sapere di staccarsi dal centro del tavolo.
“Allora, da dove spunta questo pargolo, regina cattiva? E’ forse il segretario dell’assemblea di questo pomeriggio?”
“Regina cattiva”. Così chiamavano Cinzia. Un nomignolo davvero originale per sbeffeggiare l’amministratrice. Chissà se i due fratellini si rendevano veramente conto di quanto le facessero male con quel soprannome.
“Non ne ho idea, l’ho trovato qui e non so proprio a chi appartenga. Comunque sembra non curarsi di noi.”
“Sfruttamento di minore. Potrei ricattarti.”
Cinzia, che aveva imparato a non sottovalutare mai una battuta di Michele Brescia, per quanto palesemente scherzosa, non rise affatto, anzi si irrigidì. Michele si fece sfuggire un mezzo sogghigno.
“Bene, bene, Michele è riuscito un’altra volta a farci tardare, sia pure di qualche minuto.” Marisa pronunciò quelle battute in tono aspro e acuto, mentre scrutava con la coda dell’occhio il fratello come per vedere se si sentisse a disagio.
“Del resto”, proseguì lei, “Rispetto a quei disperati che non si sono ancora fatti vedere, siamo un esempio di puntualità.”
Uno dei “disperati” era già arrivato, silenziosamente e senza attirare l’attenzione. Amedeo Cordova, detto “il conte”. Il groviglio di chiazze e rughe che costituivano il suo volto si contrasse in un’espressione di saluto, che con cortese sollecitudine l’anziano inquilino si preoccupò di porgere a tutti i presenti, bambino compreso. Più che una persona, si sarebbe detto una maschera grottesca. Le orecchie e il mento praticamente inesistenti, la bocca oblunga, il naso schiacciato, le due palle da bigliardo al posto degli occhi e il resto del corpo scheletrico e sproporzionato rispetto all’enorme testa a trapezio sembravano frutto non del parto di una madre ma dell’irriverente superstizione popolare o della diabolica fantasia di uno scultore. I suoi movimenti, poi, evidenziavano un tedio e una malinconia rari persino in una individuo di quell’età, e si articolavano con lentezza esasperante in moine da nobile del secolo trascorso, quale il signor Amedeo Cordova probabilmente era stato. Per certi versi, rappresentava l’opposto dei fratelli Brescia. Mentre quelli si erano fatti da soli, partendo da zero, per assumere la tanto agognata posizione di padroni, proprietari e carnefici, Amedeo aveva perso tutta la sua antica fortuna nel corso di un’esistenza sfortunata e intrisa di amarezze e sofferenze. Ciò che restava di lui adesso era un relitto fuori dalla propria epoca, con un cadente appartamento al primo piano tappezzato di rimpianti e ricordi. Il ricordo della bella Lisa, la splendida donna che l’aveva sposato malgrado il suo aspetto considerato ai limiti della deformità e il suo patrimonio già praticamente dilapidato. Colei che con il suo amore, afferma la leggenda, aveva donato nuova bellezza al conte, nuova gioia di vivere, prima di morire di malattia pochi anni dopo le nozze.
Cordova ormai era una figura talmente tragica che per contrasto nessuno sarebbe mai riuscito a prendere seriamente fino in fondo il suo dramma. E malgrado le storie, a cui ormai credevano solo i più vecchi, quell’uomo era solo un inquilino con tanti problemi di denaro.
“Un bambino? Ma che ci fa qui un bambino? Cos’è, adesso ci portiamo dietro anche le famiglie dei condomini?”
Non aveva ancora varcato la soglia, che già era riuscito a farsi notare. Piero Sesti, il musicista del quinto piano. O meglio, l’artista. Il grande artista, nonché pensatore, frustrato dall’indecente imposizione di dover interrompere il suo lavoro per avere a che fare con quelli che considerava avvoltoi e mediocri borghesi indegni del suo genio. Capelli e barba incolti, occhi spiritati incorniciati da lenti esornative che gli conferivano una vaga aria da intellettuale liberal. Talmente alto e magro che, aveva ironizzato Michele Brescia una volta, in una partita di calcio più che il portiere sarebbe stato adatto a fare il palo. Un animo sensibile dietro modi bruschi e un’eccessiva considerazione di sé, un individuo straordinariamente aperto alle speculazioni esistenziali e ai grandi problemi sociali, ma che perdeva drasticamente punti in occasioni più prosaiche e vicine a sé. Come una bella riunione di condominio. Di qualsiasi umore fosse, Piero era un uomo che non amava lasciar cadere una discussione, trovava il modo di puntualizzare su ogni decisione che lo riguardasse, e più si mostrava insoddisfatto riguardo alle idee dei suoi vicini, più si sentiva realizzato. Mentre prendeva posto, Michele e Marisa Brescia si guardarono a vicenda sconfortati. La loro speranza era chiaramente che il giovane musicista non si presentasse. Amedeo rivolse a Piero lo stesso cenno di saluto che aveva riservato agli altri quattro.
D’un tratto un nuovo arrivo fu annunciato dall’inconfondibile zaffata di profumo. Una fragranza che si sarebbe voluta attraente, sensuale, provocante, ma che con quell’intensità risultava solamente di pessimo gusto. Anna, la piccola Anna, salutò l’assemblea con il sorriso sulle labbra e gli spessi tacchi che battevano ritmicamente sul pavimento. Lo sgargiante e succinto abito color rosso carico che portava indosso era un altro dei suoi vagamente grossolani tratti distintivi. Vestiva sempre di rosso, difatti trattava i suoi capi d’abbigliamento quasi fossero stati il classico fazzoletto del torero. La chiamavano “la piccola Anna” perché i condomini più anziani rivedevano ancora in lei quella bambina timida e insicura che si vergognava a salutare chiunque non fosse la propria madre. Molti dicevano che era a causa della scomparsa di suo padre quando aveva soltanto due anni, comunque Anna era senza dubbio la bambina più riservata e timorosa che si potesse immaginare. Ma se è vero che la gente cambia, Anna ne rappresentava l’esempio concreto. Venticinque anni, vivace, estroversa,  e un corpo di rara bellezza, ma non quella bellezza che si può ammirare platonicamente. Le sue forme, assieme al portamento e agli abiti, lasciavano trasparire una carnalità che suscitava desiderio o repulsione, libidine o sdegno, senza mezzi termini. Così come chi la conosceva la ammirava o la detestava. Alcuni vedevano in lei la povera ragazza con un’infanzia difficile che era dovuta crescere in fretta e suo malgrado per far fronte alla malattia della madre, e che ora continuava a passare da un lavoro all’altro e a sacrificarsi per sostenere la vecchia donna che si era presa cura di lei. Altri vedevano invece la sgualdrina del quinto piano, che si concedeva a tutti in cambio di tutto, la cui unica vera competenza si poteva scovare fra le lenzuola dell’amante di turno. Se qualcuno dei suoi tanti conoscenti si fosse preoccupato di scavare a fondo in quei due occhi scuri costantemente accompagnati dal trucco, avrebbe potuto scorgere l’unico, insindacabile aspetto della piccola Anna. La solitudine. Dietro spasimanti, denigratori e una madre che ormai faceva fatica a riconoscerla quando tornava a casa, c’era solo una ragazza sola, forse ancora spaventata come quando era piccola. Forse di più. Anna fu quella che più di tutte mostrò entusiasmo alla vista del bambino. Cominciò a fare smorfie e commenti su quanto fosse carino, mentre occupava il proprio posto accanto a Piero. Questi, come Michele Brescia, non riuscì a staccarle gli occhi di dosso finché non fu seduta, una consuetudine a cui la stessa Anna era piacevolmente abituata. Marisa Brescia la squadrò come avrebbe fatto con una prostituta ferma sull’autostrada, mentre Amedeo ripeté per l’ennesima volta il proprio saluto. Cinzia era completamente immersa nei suo pensieri, fissava il bambino come fosse in trance, ripensando alla domanda che le aveva rivolto poco prima, enigmatica quanto il libro che proseguiva imperterrito a leggere.
“Dunque, signora Celi!”, Piero batté due volte la mano contro il tavolo per attirare su di sé l’attenzione, “Direi che ci siamo tutti, possiamo cominciare? Non vorrei perdere più tempo del necessario, sono impegnato in una composizione!”. Se Piero si fosse voltato avrebbe potuto notare i commenti sarcastici dei fratelli Brescia. Cinzia tirò un breve sospiro.
“Stiamo aspettando il signor Merli, mi aveva assicurato che sarebbe venuto.”
“Merli?” Michele sogghignò “Speriamo che non venga nudo!” Una risata sottile e soffocata coinvolse per un secondo tutti, tranne Cinzia e Amedeo. E, naturalmente, il bambino.
Ettore Merli partecipava a tutte le riunioni di condominio, immancabile, irrinunciabile, come lo scemo del villaggio. E, in un certo senso, Merli era proprio questo. Lo zimbello del condominio. Tanto fino a qualche anno addietro era giudicato una persona rispettabile, ineccepibile, anche socievole e affabile, tanto dopo il suo esaurimento nervoso le voci riguardo a lui erano cambiate. Il culmine l’aveva raggiunto quando si era fatto arrestare per aver vagabondato nudo nel quartiere. Adesso le dicerie su di lui erano limitate solo dalla creatività di chi le diffondeva. Ettore Merli era un pazzo, un disadattato, un maniaco, un ladro, un potenziale assassino e una miriade di altre cose. Ma, concretamente, si trattava solo di un ex impiegato che risiedeva in una grigia stanzetta al terzo piano, mantenuto da una provvidenziale pensione di invalidità. Pareva non curarsi di come gli altri lo considerassero, con serenità e distacco trascorreva i propri giorni, fra una passeggiatina, un caffé e la radio sempre alzata oltre la soglia di sopportazione dei vicini. Raggiunse l’assemblea con venti minuti di ritardo, per nulla imbarazzato, anzi scrutò tutti uno per uno con una tranquillità quasi irritante. I minuscoli occhi azzurri si posarono anche su quelli del bambino, ma la presenza di quest’ultimo non suscitò in Ettore alcuna reazione evidente. Si sistemò comodante su una delle sedie, il corpo flaccido e un sorriso assente come unico biglietto di presentazione.
Adesso che c’erano tutti, rimaneva la questione più spinosa, la più controversa, prima di poter iniziare. Che farne del bambino? Nessuno ovviamente lo aveva mai visto né era di in grado di dire come fosse riuscito a intrufolarsi lì dentro. Anna cercò di parlargli, ma con grande stupore si accorse che questi non la degnava della minima attenzione. Poiché cominciava a serpeggiare un certo nervosismo, Cinzia prese in braccio il bambino e lo spostò di peso in un angolo vicino al tavolo. Il ragazzino subì il trattamento senza lamentarsi, stringendo saldamente il prezioso libro, che puntualmente ricominciò a leggere una volta che Cinzia l’ebbe lasciato. Lei rimase ancora un attimo a fissarlo, pensierosa. La voce di Marisa Brescia la richiamò a capotavola. Qualsiasi segreto celasse quella creatura, avrebbe dovuto aspettare.
Dopo essere stata confermata come presidente dell’assemblea, Cinzia fece la sua proposta. Puntò  l’indice verso Amedeo, che sbatté le palpebre senza troppa emozione.
“Bene. Penso che il signor Cordova potrebbe essere un ottimo segretario per questo pomeriggio.”
“Mi scusi, ma non condivido la sua opinione, regina… Ehm, signora Celi.” Michele annuì con complicità all’affermazione di Marisa Brescia. Questa si rivolse ad Amedeo, che sopportava quel battibecco come si fosse trattato di un fastidioso vento autunnale che ti smuove leggermente il cappello.
“Non per offenderla, signor Cordova”, proseguì la sorellina Brescia “Ma ci sarebbe bisogno di una persona, come dire… celere, dai riflessi pronti. Non possiamo stendere il documento legale di una discussione se lei si perde già alla prima battuta.”
Amedeo alzò pacatamente il dito come intenzionato a controbattere, ma fu preceduto da Cinzia.
“Il signor Cordova ha dimostrato, alla precedente riunione, di essere perfettamente in grado di tenere il passo con la scrittura del verbale. Anzi, si è dimostrato particolarmente efficiente.” Cinzia utilizzò quelle parole come fossero state un ago col quale cucire la bocca di Marisa, che storse il naso stizzita. Piero Sesti non mancò di imbucarsi nella contesa.
“A me il signor Cordova non dispiace affatto. Ha dimostrato di non avere mai secondi fini, a differenza di alcuni…” Marisa e Michele Brescia preferirono non raccogliere la provocazione.
“Il signor Cordova? Sì, è simpatico, il signor Cordova! Sempre educato, anch’io voglio il signor Cordova.”, Ettore esplicitò la sua approvazione con un largo e gioviale sorriso e quella vocina buffa e sempliciotta. Michele e Marisa Brescia lo guardarono in un misto di compassione e seccatura.
“Anch’io penso che il signor Amedeo sia il tipo adatto. Un uomo così distinto… di sicuro compilerebbe il tutto scrupolosamente.” Anna si sporse leggermente per constatare se Amedeo Cordova mostrasse qualche particolare reazione per l’intervento della ragazza. Fu per lei una nuova, deludente sorpresa ricevere solo il malinconico cenno di ringraziamento destinato anche a Piero.
Cinzia si affrettò a concludere.
“Lei naturalmente è d’accordo, signor Cordova.”
Amedeo mosse il capo in segno di assenso. Cinzia si scrollò le spalle.
“Bene. Nessun altro?”
Marisa Brescia aveva chiaramente intenzione di candidarsi, ma rinunciò non vedendo alcuna possibilità, causa l’esiguo numero di consensi che avrebbe ottenuto da parte dei condomini, i quali probabilmente avevano preferito Cordova anche per la semplice soddisfazione di escludere lei. Una volta che Amedeo si fu dichiarato pronto a svolgere il compito assegnatogli, Cinzia prese ad introdurre le carte per quella che, ne era sicura, sarebbe stata ben più di una partita. Sarebbe stata una guerra.
“Se non sbaglio, avevamo un paio di questioni in sospeso…”
“Sì, esatto!”, la prima interruzione di Piero, provvidenziale quanto il rintocco di una campana la domenica. “Direi che il mio problema può avere la precedenza, visto che ho fretta di andarmene. La questione è molto semplice…” si volse accigliato su Anna, che da come si mangiava le unghie e teneva lo sguardo abbassato sembrava aspettarsi la lamentela di Piero.
“I rumori, signora Celi! I rumori. Io sono un creativo, per chi non l’avesse capito”, Piero mutava tono a intermittenza alzando la voce ogni volta che si girava verso Anna.
“Non voglio certo giudicare come la signorina Anna trascorre il suo tempo o, come dire… socializza. Ma si dà il caso che il suo appartamento sia immediatamente sopra il mio. Non sono ricco, ve lo ripeto, chi asseconda il proprio talento, come il sottoscritto, non diventa quasi mai ricco! Non mi posso permettere un appartamento insonorizzato, io non ho scelto il mio lavoro pensando a quanti soldi avrei guadagnato, io, sottolineo…” Quello che si annunciava come un enfatico monologo (difatti Piero aveva anche velleità da attore) fu interrotto da un poderoso applauso originato dalle mani di Michele Brescia. La sorella si aggregò ben presto. Probabilmente i due fratelli avevano afferrato la seconda allusione nei loro confronti e avevano perso la pazienza.
“I miei complimenti, signor Sesti, mi scusi se interrompo la sua performance, ma, ecco… tanto per intenderci, è chiaro… il suo lo chiama un lavoro?”
“Io sono un musicista!”
“Oh, già…”, intervenne Marisa, con tono doppiamente sarcastico e irriverente, “Michele, ti sei scordato che il signor Sesti suona, ed è così bravo, poi, un musicista di fama mondiale! E mi scusi, signor Merli, non ricordo bene… Che cos’è, che suona?”
“Il flauto! Suono il flauto!” Un altro difetto di Piero Sesti. Non possedeva il benché minimo senso dell’umorismo. Michele ne approfittò per sferrare il colpo di grazia.
“Il flauto? Lei suona il flauto, Sesti? Beh, direi che dovrebbe essere la signorina Anna a lamentarsi del rumore.”
Il volto di Piero era trasfigurato dall’ira. Se non fosse stato per il provvidenziale intervento di Cinzia si sarebbe avventato sui due gongolanti fratelli e li avrebbe presi a pugni. Invece, resosi conto che tutti lo stavano guardando, riprese posto farfugliando fra sé e sé qualche misteriosa ingiuria.
“Forse, signor Brescia”, sopraggiunse Anna sporgendosi verso l’uomo e ammiccando con spudorata evidenza, “Se do tanto fastidio al signor Sesti, ogni tanto potrei spostarmi nel suo appartamento… Tanto lei non c’è quasi mai, non le dispiacerebbe, eh? E se un giorno ci dovessi trovar dentro anche lei, sarebbe tanto di guadagnato, non trova? Un’occasione per conoscerci un po’ meglio…” Michele stava diventando dello stesso colore del rossetto di Anna. La sorella Brescia si protrasse verso la ragazza con uno sguardo più tagliente di un rasoio e più velenoso del dente di un serpente.
“Non corra troppo, signorina… Ovviamente mio fratello è libero di fare ciò che vuole, ma… sa, è un po’ che sto raccogliendo testimonianze da parte dei vicini sulle sue… abitudini. Pare che lei effettivamente si veda con molti uomini.”
“Mi vedo... Sì, mi vedo con parecchia gente. Che c’è che non va? Sono una persona aperta, mi piace stare con la gente.” Anna cercò il più possibile di non dare a intendere quanto fosse turbata dalla sotterranea aggressione dell’altra.
“Oh, mi risulta, ovviamente c’è gente che è pronta giurarlo, che alcuni di questi uomini vi abbiano pagata prima di lasciare il pianerottolo.”
“Cosa… No, aspetti, scusi…”
“Aspetti lei! Questo condominio non è una casa di appuntamenti, signorina. Se vuole arrotondare la sua paga lo faccia da un’altra parte, o con un minimo di decenza.”
“Vaffanculo!” Anna si alzò in piedi e sbatté il pugno contro il tavolo. Il torace le si gonfiava e sgonfiava come un palloncino a una velocità frenetica. Tremava dalla testa ai piedi.
“Che vuole da me, me lo spiega? Non ho fatto niente di male e lei mi sta… mi sta… Ah, insomma! Almeno io non ho avvelenato mia madre, non ho fregato soldi a una povera vecchietta! Siete voi i delinquenti, non io!”
Marisa Brescia sghignazzò sommessamente, senza scomporsi di un millimetro.
“Noi stavamo solo parlando, signorina Anna. E lei, se ho ben capito, accusa me e mio fratello di omicidio e truffa? Spero che abbiate messo tutto a verbale, signor Cordova.”
Amedeo Cordova smise di scrivere per rispondere affermativamente. Anna si risedette senza fiatare. Incrociò le braccia sopra la pancia, angosciata. La stessa posizione che aveva sempre quando era bambina. Con un rapido sguardo, Michele espresse la sua ammirazione per l’abilità della sorella.
“Signora Celi, ma che fa? Dorme?”
L’accusa di Piero non era esatta. Cinzia non stava dormendo. Stava sognando. Ad occhi aperti. E la colpa era sempre di quel bambino. Continuava a pensare a quella domanda, a quelle carezze. Dovette scuotere la testa un paio di volte per riaversi completamente. Con suo grande imbarazzo, si rese conto che non aveva seguito nulla dell’accesa discussione tra Marisa Brescia e la piccola Anna.
“Beh, ecco… per tornare alla questione del signor Sesti, confermo la risposta dell’altra volta. Effettivamente, sono molte di più le persone che si lamentano del suo flauto che dei rumori di Anna. Dovrebbe proprio fare qualcosa, Piero, istituire degli orari.”
“Ah, questa poi! Dovrei incanalare la mia ispirazione in un tabellone per la sua bella faccia! Mi dica, disprezza la mia musica, signora Celi? Non pretendo che lei sia in grado di apprezzarla, mi chiedo solo se riesce a sopportarla.” L’irascibile ostilità condita di snobismo di Piero stava davvero cominciando ad esasperare Cinzia.
“Visto che me lo ha chiesto, signor Sesti… No, non sopporto la sua musica, non la sopportavo quando si è trasferito qui, dieci anni fa, e non la sopporto ora! Nel caso non se ne fosse accorto, Sesti, anch’io abito al quarto piano, nell’appartamento accanto al suo, per essere più precisi. Sono la prima a lamentarmi! I miei figli non possono studiare il pomeriggio, io e mio marito siamo svegliati nel cuore della notte dal suo strimpellare continuo!”
Offendere l’opera di Piero era cento, mille volte più pericoloso che offendere la sua persona.
“Francamente, signora Celi, me ne infischio che una donna squallida come lei approvi o no la mia musica. Sono solo i giudizi di un vecchia casalinga inutile senza opinioni, che passa la vita a fare da schiava al marito e a quei cadaveri ambulanti di figli!”
“Mi ascolti bene, Sesti” le mani di Cinzia erano serrate, i denti stretti, le braccia oscillavano in preda a una furia viscerale e a stento repressa, “Se la prenda con me quanto vuole, non mi interessa, ma lasci stare la mia famiglia, ha capito? Non tocchi la mia famiglia!” E, inaspettatamente, Piero tacque. Una luce nei suoi occhi lasciava a intendere che quel discorso non sarebbe finito lì.
“Lei non è una persona educata, signor Sesti. No, proprio no. Perché è stato così offensivo con la signora Celi? Crede di essere così bravo a suonare da poter maltrattare gli altri?”
Ettore Merli aveva assistito ad ognuna delle piccole battaglie consumatesi fino ad allora. Imperturbabile insondabile, come di consueto. Il suo commento lasciò spiazzati tutti, soprattutto per l’innocente e distesa flemma, condita con una sorta di candida sfacciataggine, con la quale lo aveva pronunciato. Sembrava uno studente delle elementari che faceva notare un errore di dizione alla maestra.
“Piuttosto, perché non parliamo di lei, signor Merli?”, il tono di Anna era nuovamente sicuro di sé, adesso che aveva trovato un interlocutore apparentemente indifeso. La ragazza, nel parlare a Ettore, evitava quasi ossessivamente di scrutare anche solo con la coda dell’occhio i fratelli Brescia.
“La sua radio si sente fin nel mio appartamento, signor Merli. Dà molto fastidio a me e a tutte le persone che vengono a farmi visita. E mi sembra che parecchia gente gliel’abbia già detto, di tenere quell’affare a volume più basso!” C’era qualcosa in Ettore che inquietava profondamente Anna. Dopo l’esaurimento nervoso era lo stesso uomo di cinquant’anni, bruttarello e sempre più trascurato, eppure la guardava con la limpidezza di un neonato, una sincerità e una spontaneità che in un così improbabile involucro la mettevano a disagio. Piero ebbe come uno scatto.
“Signorina, non mi sembra molto corretto prendersela con il signor Merli solo per non essere riuscita ad aver ragione su Marisa Brescia.”
“Oh, mi scusi, signor musicista, ma sbaglio o si sta impicciando anche lei in cose che non la riguardano, per sfogarsi del modo in cui l’ha zittita la signora Celi?”
Anna e Piero si fissarono a vicenda alla ricerca spasmodica di quella scintilla di incertezza che avrebbe determinato il trionfo di uno dei duellanti. Per cosa stessero lottando, data la gratuità dello scontro, rimaneva un mistero. La ragione? Il rispetto? Forse, se mai ci fossero stati, in quella stanza.
“Io non voglio abbassare la mia radio. Ci sono troppi rumori, i rumori che vengono da fuori, quelli che fate voialtri. Se non tengo il volume un po’ alzato, non capisco niente.” Adesso Ettore aveva assunto un tono capriccioso, era lo stesso studente delle elementari di prima, ma qualcuno gli aveva rubato la merenda.
“Signor Merli, la prego, cerchi di capire… Noi viviamo in un condominio, sa cosa significa?”, Cinzia si impegnò ad essere il più possibile paziente con l’uomo che, bene o male, poco prima aveva preso le sue difese.
“Significa che siamo tante… anime, tante storie, concentrati di esperienze diverse, magari anche opposti fra loro… che si ritrovano a dover coesistere in uno spazio ristretto come una palazzina! Capisce, dico anche a lei, signor Sesti…”, Piero Sesti rimuginava arcigno, rivolto nella direzione opposta. “Capisce, dico, perché impieghiamo ore in riunioni come questa? Perché speriamo che insieme, parlando, si possa risolvere civilmente i nostri problemi, e non chiuderci in noi stessi o, peggio, aggredire gli altri.”
“Io non ho aggredito nessuno”, replicò Ettore “Io chiedo solo un po’ di tolleranza verso di me, verso la mia radio. Voi fate sempre tanto chiasso, lo fate anche adesso, e io non mi lamento mai. Non sono io quello che ha problemi di civiltà. Siete voi che, appena entrate qui, ogni volta, non fate che scannarvi a vicenda per stupidi motivi.”
“Ma sentitelo!” Per tutta la discussione Michele Brescia era parso un petardo con la miccia accesa, e adesso in un lampo scoppiava.
“Sentite da chi dobbiamo prendere lezioni di civiltà! Da un… minorato mentale!”
“Moderi i termini, giovanotto!” La voce di Amedeo Cordova irruppe fragorosa come un tuono, non un tuono di quelli che cadono dal cielo, ma di quelli, ben più rari e scioccanti, che spuntano dai meandri di un terreno infuriato, e come un grido di rivolta scuotono l’ambiente circostante dalle fondamenta. Mentre tutti lo osservavano allibiti, l’anziano conte, ritto in piedi, risollevò leggermente la penna dal tavolo e annotò il proprio intervento. Michele pensò bene di spostare l’attenzione verso il vecchio, dopo un fugace e complice cenno d’intesa alla sorella.
“Bene, signor Cordova. O signor conte, se preferisce. Molto bene. Credevo che mia sorella fosse il solo avvocato, qui. Ma lei mi deve qualcosa, conte, grazie di avermelo ricordato.” Amedeo Cordova tirò un lungo respiro e scrutò a testa alta Michele Brescia. Questi continuò, assumendo un’espressione di sottile e glaciale perfidia.
“Come, non rammenta, signor conte, il piccolo prestito che le feci qualche tempo fa? Adesso non è più tanto piccolo.”
“Questo non è il momento per fare dello strozzinaggio!”, intervenne Piero Sesti.
“Ricordi l’incitamento del signor Cordova, Sesti…”, lo bloccò Marisa Brescia “…Moderi i termini! Vuole fare lo stesso errore della piccola Anna?”
“E poi”, proseguì Michele prima che Cinzia potesse frapporsi “Questo mi sembra il luogo più adatto, poiché si sta parlando dell’appartamento del signor Cordova. Noi tutti sappiamo che lei non ha e non avrà mai il denaro per ripagare il debito, non è vero, caro conte?”
“E’ possibile… è possibile che lei abbia ragione.”, sospirò Amedeo Cordova, mentre seguitava diligentemente ad annotare ogni singolo avvenimento, da buon segretario. Michele Brescia inclinò la testa fino a sfiorare con un ricciolo dei capelli la fronte di Amedeo.
“Le voglio venire incontro, signor Cordova. L’unica cosa che abbia da offrirmi è il suo appartamento. Siamo una graziosa palazzina nel frequentatissimo centro di una gran bella città. Penso che affittandolo se ne possa ricavare un utile considerevole. E quanto a lei, signor Cordova… mio padre avrebbe tanto bisogno di compagnia, in quella sua casetta di riposo…”
“Ora basta, Michele!” Cinzia era disgustata e livida dalla rabbia.
“Mi chiami Brescia, signora Celi, signor Brescia! Non sono più un ragazzino povero che lei può trattare dall’alto in basso!”
“Non so cosa speravi di ottenere da tutto questo, “signor Brescia”, ma se credi di poter fare il tuo comodo solo per quella sorellina avvocatessa che ti porti dietro…”
“Non sto discutendo con te, regina cattiva!”
“Voi… dovreste solo provare vergogna, lo sapete?”, le gote rigonfie e la voce arrochita, il conte lanciava ai fratelli Brescia quelle parole dirette e taglienti come sassi, con la disperazione di chi non ha altro per difendersi e per affermare la propria dignità.
“Siete più viscidi dei vermi che strisciano per terra. Voi almeno avete qualcosa, anzi, avete tanto, io ho solo quell’appartamento!”
“Lei non si permetta di giudicare me e mio fratello.” Qualcosa, nello sdegno di Amedeo Cordova, aveva colpito inaspettatamente Marisa Brescia “Non ha la minima idea di chi siamo e dei sacrifici che abbiamo dovuto fare per arrivare dove siamo ora.”
“Cosa c’è Brescia?” Piero si fece avanti con ineffabile tenacia, “Avete bisogno di soldi? L’ultimo bilancio della vostra azienda è stato sfavorevole?”
“Si sta di nuovo sfogando su cose che non la riguardano, Sesti!”, proruppe Anna.
“Perché non fa qualcosa, signora Celi?” La voce di Ettore era ormai un filo nel labirinto di una nuova Babele.
“Faccio del mio meglio, Merli, non ci si metta anche lei!”
E accadde. Quel torrente impetuoso di voci, di idee, di storie discordi fu interrotto, troncato con la stessa brutalità, la stessa spiazzante rapidità con cui si soffia via la fiamma di una candela. Fu un suono, simile a un pianto, ma incredibilmente più intenso, prolungato, fino a risultare lacerante. Tutte quelle persone diverse presero contemporaneamente a tapparsi le orecchie, i loro sensi annichiliti cedevano il posto a un alternarsi di sofferenza e panico, si alzarono dal tavolo barcollando goffamente quanto istericamente. Cinzia si accorse poco prima di tutti gli altri che quel suono, incombente e opprimente come una presenza estranea, proveniva dal bambino. Fisso nell’angolo dove era stato confinato, la piccola bocca inveiva sui timpani degli inquilini con quel pauroso ibrido tra un lamento straziato e un richiamo all’ordine e all’attenzione. Alcuni, come Piero e i fratelli Brescia, corsero inorriditi in direzione della porta. Chiusa. Serrata, ermeticamente. La maniglia girava ma quel dannato pezzo di legno non si apriva, immobile, come saldato alle pareti. Anna e Cinzia mossero alcuni passi in direzione del bambino, ma il suono si fece talmente insopportabile da costringerle a indietreggiare in cambio di un relativo sollievo. I sette presenti si ritrovarono in poco tempo costretti alla parete come se quel rumore fosse stato lo schiocco minaccioso di una frusta. Tutti avevano l’impressione che i propri timpani stessero sanguinando. Il bambino era in piedi, di nuovo al centro del tavolo, l’intera figura avvolta in una nuvola più luminosa della luce solare. La bocca era chiusa, ma l’intollerabile suono si percepiva ancora. Il bambino ora incuteva la soggezione reverenziale di una divinità e il terrore primordiale di un mostro. Reggeva davanti a sé il libro, che gli arrivava dal mento alla pancia. Gli occhi dei sette si spalancarono, come sollevati da un vento inesorabile. Il bambino aprì il libro all’illustrazione centrale, una doppia pagina raffigurante sette personaggi delle fiabe.
“Guardate.” Il comando si sovrappose al rumore lancinante. Non era la voce del bambino a generarlo, bensì una sorta di riflesso interiore, che ognuno di quei sette individui udiva come la propria eco.
“Voi avete dimenticato chi siete.”
L’illustrazione al centro del libro divenne più grande, enorme, gigantesca, fino a che i sette personaggi delle fiabe ebbero acquistato le dimensioni delle sette persone in carne ed ossa. Sette personaggi pervasi dalla stessa nuvola del bambino, uno per ogni fiaba. Cominciarono a espandersi oltre gli esseri in carne ed ossa, fino a risucchiarli nella propria aura cartacea.
Cenerentola, Hansel e Gretel, il Principe Ranocchio, il Pifferaio di Hamelin, Cappuccetto Rosso e l’Imperatore Vanitoso rientrarono nell’illustrazione.


Ora si trovavano tutti lì, non sapevano dove. L’unico elemento che si avvertiva con chiarezza era di essere reclusi, segregati in una dimensione oscura. Tenebre, una cappa di ombre nere come la pece li circondava. Cinzia, Marisa e Michele Brescia, Amedeo Cordova, Anna, Piero Sesti e Ettore Merli sentivano qualcosa di solido ai loro piedi, ma chinando il capo la vertigine li coglieva con nauseabonda immediatezza. C’era solo il vuoto. E il buio. I sette persero rapidamente coscienza di essere assieme in quel non luogo spettrale, e si scoprirono persi, ognuno in un differente incubo. Sperduti, in compagnia dell’unico bagaglio che ogni essere senziente si porta dietro, quello che non ci abbandona mai, neanche quando lo vogliamo. Quello delle proprie paure.

Cinzia improvvisò alcuni passi verso un avanti che non esisteva. D’un tratto, le vide. Ferme, davanti a sé, di legno, come querce secolari. La più alta, sua madre, ma quella non era la sua vera madre, no. Non gliel’aveva mai detto, ma Cinzia lo sapeva che quella era soltanto la sua matrigna. Perché nessuna vera madre avrebbe potuto odiare in quel modo una figlia. Troneggiava, statuaria e inflessibile, con le due figliolette al seguito. Quelle che dovevano essere sue sorelle, ma che non potevano esserlo. Tutte e tre la fissavano con durezza. Che cosa aveva fatto Cinzia, di male? Non aveva chiesto niente di particolare, eppure agli occhi di quelle tre donne era sembrata una richiesta imperdonabile, una colpa al di là di qualsiasi redenzione. Non aveva preteso libertà, indipendenza, rispetto, aspirazioni legittime che altre al suo posto avrebbero lottato per ottenere. Ma lei… lei aveva semplicemente chiesto di essere amata. Perché, perché punirla con i maltrattamenti, con il rifiuto? C’è qualcosa di sbagliato, a voler essere amate dalla propria madre? Cinzia si avvicinò a quelle tre figure di legno, tetre, imponenti e spaventose. E più si avvicinava, più loro diventavano alte, e i loro sguardi severi e sprezzanti si facevano insostenibili. Quando si trovò ai loro piedi, Cinzia fu scossa nell’intimo da una risata, sguaiata e agghiacciante. Si voltò, e vide l’altra faccia della medaglia. Suo marito e i due figli. Lui, il giovane che nei suoi sogni aveva sempre visto come il principe azzurro, quello che aveva promesso di amarla per sempre. Quello che l’aveva portata via dalla casa della matrigna, l’aveva illusa che tutto sarebbe stato diverso. Ma diverso da cosa? Quello non era l’uomo dei suoi sogni. L’uomo dei suoi sogni non era mai esistito. E i suoi due figli, poi, quelli di cui lei aveva paura. Quelli che non avevano voluto amarla, forse perché lei non era riuscita a capirli. Ma ci aveva provato. E tanto. Ora quei tre ridevano di lei, della sua storia. Questa volta Cinzia non aveva più il coraggio di avvicinarsi. Furono loro a raggiungerla, e man mano che la distanza fra Cinzia e gli altri tre diminuiva, anche questi si innalzavano, maestosi e irraggiungibili, non austeri, ma beffardi. Perché loro non la odiavano. La compativano. Nel modo più crudele e disumano che esista, quella pietà che ti strappa del tuo io pezzo dopo pezzo, sopruso dopo sopruso. Quella compassione che era quasi peggio dell’odio. E lei, al centro, chiusa fra due barriere, che cosa poteva fare? Quello che aveva sempre fatto. Muoversi, lavorare, pulire, cucinare, rammendare, spazzare, far sì che nel suo piccolo mondo tutto fosse in ordine, che tutto fosse bello, per dimostrare a quelle sagome così elevate e irraggiungibili che anche lei aveva il potere di renderle felici. Ma non capivano. O non volevano capire. Continuavano a guardarla torve da un lato, e a prenderla in giro dall’altro. Mentre Cinzia cadeva in ginocchio umiliata, un’altra risata si sollevò, ma non c’era divertimento in essa, né ironia. Era una risata di morte, la risata di chi si è ineluttabilmente estraniato dalle responsabilità e dai vincoli della vita terrena, la risata dell’uomo che l’aveva abbandonata, quello con il quale la sua vita sarebbe stata diversa. La risata di suo padre.

Marisa e Michele Brescia non avevano fatto caso alla foresta, all’inizio. Eppure ora ci stavano dentro. Si facevano strada tra i rami irti di spine, come quando erano bambini. Uniti, mano nella mano, eppure, al di là del loro legame, disorientati, confusi, emarginati dal resto del mondo. Un mondo che, come la sentenza di un giudice non troppo imparziale, li aveva condannati non per la loro personalità, non per le loro azioni. Per la loro povertà. Se fosse stato giusto o sbagliato, Miki e Mari non avevano neanche avuto tempo di chiederselo. Sta di fatto che si erano trovati in un mondo che aveva piazzato rovi ad ogni possibilità di realizzazione, un mondo che gli si avvicinava solo per graffiare e ferire le carni oltre i miseri e stracciati vestiti. Quella foresta rievocava alla mente dei fratelli Brescia il mondo in cui erano nati. Quanto fa male essere considerati indegni anche degli avanzi, soprattutto dai propri genitori. Anche per i due che li avevano messi al mondo, infatti, non erano che palle al piede, pesi di cui liberarsi. Come si può sopportare di vivere in un mondo del genere? Quando ormai il corpo era troppo grande e il cuore troppo duro per credere a qualsiasi dio, le preghiere dei due fratelli furono esaudite. Una fiera di meraviglie, tutte da gustare, tutte da assorbire, provare, possedere, gli si aprì davanti agli occhi al termine della foresta, come una deliziosa e fragrante casa fatta di dolci. L’occasione era finalmente giunta, quella che si dice spetti a tutti gli esseri umani, anche a quelli più infimi. Dopo tante asperità, dopo che il loro pane era stato per troppi anni l’ingiustizia, non potevano lasciarsi scappare quella miracolosa opportunità. C’era soltanto un intoppo, e i due fratelli adulti se lo ritrovarono dinanzi come in un viaggio nel passato. Una vecchietta. Apparentemente innocua, certo. Anche i loro genitori erano innocui, eppure avrebbero pagato l’oro che non avevano per liberarsi di Mari E Miki. Che cosa bisognava fare, con quella creatura debole e inoffensiva che si poneva fra due giovani e la via d’uscita alle privazioni? Era necessario che lei fosse il nemico. Non una gentile vecchina, ma una perfida strega che voleva mangiarli, per questo li aveva accolti così amichevolmente. Marisa e Michele Brescia avevano deciso molto tempo addietro di ingannare sé stessi con quella menzogna, una menzogna necessaria perché potessero far uscire la crudeltà necessaria a non fermarsi di fronte a niente, ad annullare totalmente tutto e tutti in cambio della propria realizzazione, del proprio successo. Rivedersi davanti quella vecchia scheletrica fece montare in loro tutto il rancore di un’infanzia mai vissuta. Si avventarono sull’anziana e la divorarono. Letteralmente. Viva. Come cannibali. E subito dopo la vecchietta, comparvero i genitori. E poi gli amici, i parenti, tutti quelli che avevano incrociato il loro cammino. Ne ingurgitarono avidamente le teste, ne saccheggiarono le interiora, con l’avidità di belve affamate, senza freni, senza rimorsi, forti solo di quella rabbia e di quel nuovo appetito, quella brama di possedere di cui ormai erano gli schiavi incondizionati. Fra una persona e l’altra, in attesa di una nuova preda, si mordevano a vicenda, coscienti che se i corpi di cui saziarsi si fossero esauriti, solo uno di loro sarebbe sopravvissuto, il più disposto a nutrirsi dell’altro. All’improvviso, finalmente, la casetta di dolci. Dopo tante persone divorate delle loro membra, delle loro essenze, i due fratelli Brescia ottenevano finalmente ciò che gli spettava. Erano all’apice. Ma quando finalmente vi approdarono, si accorsero che la casa era troppo grande. Non avrebbero mai fatto in tempo a mangiarla tutta, era… enorme. E loro erano troppo piccoli. Già. Erano tornati bambini. Mentre si cibavano dei propri simili, anziché crescere, erano diventati piccoli come neonati, forse ancora di più. I loro stomaci avevano uno spessore talmente infinitesimale che non avrebbero potuto inghiottire nemmeno un filo d’erba. Eppure, quei due microscopici esseri guardavano la casa senza riuscire a smettere. Avevano ancora fame.

Amedeo precipitò a capofitto nel mare. L’ansia lo assalì spietata. Non era capace di nuotare. Mentre le onde lo sballottavano da una parte all’altra di quella distesa salata senza limiti, eserciti di pesci gli passavano accanto, lo urtavano e lo maledicevano per il suo portamento impacciato. Con quanta eleganza sapevano nuotare, i pesci. E come erano belli. Ma lui era brutto. Un tempo sapeva nuotare, non era un pesce, ma sapeva nuotare. Ora non ne era più in grado. Se ne era dimenticato. Mentre scalciava e si agitava cercando di salvarsi dalla burrasca impetuosa con quelle contorte e inadeguate ossa, si rese conto che le tonalità della propria pelle mutavano, come la consistenza della stessa. Ora era verde. E le sue braccia non potevano dirsi più braccia, ma zampe. Zampe che un tempo, fra le rocce di uno stagno, gli avrebbero fatto compiere formidabili, energici salti. Ma ora si trovava nel mare in tempesta, non c’era niente… nessuno a cui aggrapparsi. Stava quasi per rassegnarsi all’idea di morire in quelle fattezze sgraziate, circondato da esseri tanto avvenenti quanto scostanti, che arrivò. Come un angelo salvatore, la principessa, o forse la dea? La donna che avrebbe potuto nuotare in mille direzioni diverse, che con la sua avvenenza e la sua dolcezza avrebbe avuto possibilità vaste come quel mare, ma che sceglieva di aiutare lui. E lo salvava. Salvava quel piccolo essere vecchio, incapace e orripilante. Gli insegnava di nuovo a nuotare, delicatamente, con la semplicità di un bacio. E mentre Amedeo riprendeva a nuotare, il rospo si trasformava, ritornava uomo. Forse per quei  pesci era ancora l’uomo più brutto e patetico sulla faccia della terra, ma per lei non era così. Per lei, Amedeo era un principe. E ne era convinta con una tale, magica sincerità che persino Amedeo cominciò a convincersi. Non era un ranocchio, ma un principe. Ora non contava più come lo vedessero i pesci, ma come lui vedeva sé stesso. Fragile e meravigliosa come le ali di una farfalla, la speranza si infranse contro le onde che spingevano il tempo perché esso trascorresse. Lei tentò di nuotare ma, senza che lui potesse far nulla, esse la inghiottirono, e lei scomparve, fugace e fatua, come una libellula in volo. Amedeo rimase di nuovo solo, ad affrontare un oceano che non voleva saperne di invecchiare con lui. E mentre la leggiadria lo abbandonava, i movimenti si facevano pesanti e il vecchio rospo annaspava sempre più stanco, una nuova deformità cresceva come un cancro dentro di lui. Come quella di prima, peggio di quella di prima. Segnata dal dolore. Dal rimpianto.

Il primo pensiero di Piero fu che avrebbe voluto sentirsi grande. Grande, molto grande, per scorgere orizzonti tanto ampi da avere la capacità di guidare gli altri verso la salvezza. O verso la rovina. In ogni caso, sarebbe dipeso solo da lui. La strada che si ritrovò a intraprendere Piero in quel luogo onirico dove erano stati catapultati somigliava a un deserto. Sabbioso, rovente. Nulla intorno a lui, eccetto il vuoto. Una desolazione imperante che cercava di ignorare. Anche da ragazzo si sentiva così. Lui aveva grandi pretese, meraviglie insondabili nel cuore e nella mente. Dentro di sé. Ma fuori, fuori era il deserto. Più esseri lo circondavano, più lui si sentiva incompreso, intrappolato, impossibilitato a condividere le impressioni, le meditazioni che lo eccitavano o lo commuovevano. Non c’era nessuno.
Ma ecco che, in un lampo, lo scenario intorno a Piero si trasformò. Ecco un pubblico, disposto ordinatamente di fronte a lui. Attendevano trepidanti la sua esibizione. I loro cuori erano come città traboccanti di topi, preoccupazioni che gli impedivano di godere appieno delle più autentiche emozioni. Lui, con la sua musica, aveva il potere di liberarli da quei ratti, da quelle angosce. Quante persone, tutte diverse. Sarebbe stato in grado di soddisfarle tutte? Forse, fra di esse, ce n’era anche una che stava aspettando l’esibizione con maggior passione rispetto alle altre. Qualcuna che intorno a sé avvertisse lo stesso deserto di Piero. E se la musica avesse potuto farla venire fuori? Piero avvicinò il flauto alla bocca e incominciò a suonare. Gli altri ascoltavano, sembravano meno nervosi, la melodia li cullava nei luoghi più impensabili, attraverso meraviglie invisibili agli occhi e indescrivibili con la parola. I topi erano condotti nel burrone, le anime salve, almeno per il breve tempo che avrebbero concesso all’ascolto. Tuttavia, al termine, nessuno applaudì. C’era chi fischiava Piero, chi lo insultava, chi se ne andava deluso. Della persona simile a Piero, in grado di apprezzare quell’espressione così viva e autentica di sé stesso mediante le note musicali, neanche l’ombra. Piero aveva reso a tutti quegli ingrati un prezioso servizio, un dono, ma essi ora parevano non aver capito la ragione, il senso di quell’opera. Lo ritenevano un cialtrone, un esibizionista, un fanfarone. Perché? Erano davvero tutti così ottusi? O forse alcuni erano invidiosi? Piero non poteva dirlo. Con la sua musica avrebbe voluto trovare risposte per tutto, ma adesso si era tragicamente reso conto di avere molte più domande. Per chi avrebbe potuto suonare? Per la persona fittizia, quella simile a lui? Quella che probabilmente esisteva o troppo lontano, in un altro mondo, o troppo vicino, nel mondo dentro di sé? No. Lui doveva suonare per sé stesso. E mentre le note della canzone lo cullavano in un’armoniosa solitudine, ad ogni movimento delle dita sui fori del flauto aumentava l’apprezzamento per Piero Sesti, e diminuiva la considerazione di quel piccolo pubblico che non era stato in grado di apprezzarlo. E, per un attimo, Piero provò una pace totale, una quiete e un equilibrio assoluti, una serenità che avrebbe voluto durasse per sempre. Fu un granello fuori posto, e poi un altro, e un altro ancora, a sgretolare le sue aspettative. La tempesta di sabbia lo colse mentre era solo, indifeso, vulnerabile. Il flauto avrebbe potuto distrarlo in eterno, ma non sarebbe mai riuscito a difenderlo da quei granelli, tanto insignificanti singolarmente quanto devastanti nella loro collettività. E mentre si rannicchiava cingendosi la testa con le braccia, implorava singhiozzante un aiuto. Ma nessuno poteva sentirlo. Non era che una nota stonata in mezzo al deserto.

Come cercò di orientarsi nell’oscurità, Anna si ritrovò di fronte a un bivio. Due strade, che conducevano a due destinazioni diverse, a due pericoli diversi. Sua madre era una donna così apprensiva. Le aveva insegnato a non seguire mai il proprio istinto, diceva che le avrebbe fatto male. E Anna, per assecondarla, per compiacerla, aveva ubbidito. Si era repressa, aveva chiuso ogni impulso, ogni reazione dettata dalle proprie tendenze in un scatola, e nascosto accuratamente la chiave. Aveva iniziato ad avere paura. Non faceva parte del suo carattere, ma se l’era imposto per scelta, fino a imprimerlo nel suo subconscio come una parte di lei, uno sgradevole accessorio di cui non ci si poteva liberare. Finché era rimasta bambina, le era andato bene così. Avrebbe accettato ogni compromesso, pur di non perdere sua madre. Purché lei non se andasse, come aveva fatto… come aveva fatto… lui.
Ma Anna non poteva restare bambina per sempre. E adesso, che le piacesse o no, non era più bambina. Doveva fare una scelta, che strada del bosco prendere. E mentre cresceva, era così forte quel desiderio di cambiare, Anna lo provò adesso con la stessa intensità di quando era adolescente. Il desiderio di seguire la propria strada, non quella dettata da altri, in barba a tutto, alle regole, alle convenzioni. Anche agli affetti. Fu allora che si mise alla ricerca della chiave. Ma quando finalmente l’ebbe a portata di mano, era troppo tardi. Il sentiero era stato imboccato, la vittima adocchiata. Lei era troppo inesperta per fronteggiare i carnefici. E loro troppo astuti, troppo subdoli.
Anna si comportò di nuovo come quando era adolescente, quando tentava di aprire la scatola della sua vera personalità. E quando si fu inoltrata per il sentiero breve e il petto aveva iniziato a battere più forte, l’oscurità prese forma, si solidificò, aveva un muso, delle zampe. Aveva anche una sessualità. Era un lupo. Cosparso di peli, i denti affilati e grondanti saliva, gli occhi come due grandi gabbie di cristallo dalle quali non si poteva evadere. E quel respiro, Anna lo sentiva su di sé, affannoso, ansimante. Il lupo fece uscire un lungo ululato, un monito su cosa fosse la paura, su cosa fosse l’incertezza. Anna rivide in quel lupo affamato tanta, troppa gente. C’era quel ragazzo più grande, quello che aveva seguito, con cui aveva scherzato, senza sapere che giocare con alcune persone è come giocare con un accendino in un fienile cosparso di benzina. Quel ragazzo le aveva mostrato una volta per sempre cos’era la violenza. Cos’era la sopraffazione. Ma non c’era solo quel ragazzo. Lui era l’immagine più vivida, la più atroce, ma ce n’erano altri. C’era quel bidello sorridente dalla faccia untuosa che la palpava all’uscita di scuola. C’era quell’uomo, quello che diceva di volerla salvare dal lupo cattivo che l’aveva mangiata. Era un sacerdote. La madre credeva che portandola da lui avrebbe superato il trauma. Ma se il lupo l’aveva distrutta e devastata nel corpo, il cacciatore della bestia l’aveva fatto nello spirito. Diceva che era anche colpa di Anna se quel ragazzo si era comportato così. Ma perché? Gliel’aveva forse chiesto Anna, al lupo, di farle del male? O forse, secondo il cacciatore, c’era qualcosa che poteva giustificare un’azione del genere? Anna non riusciva a capire. Il sacerdote parlava, parlava di riservatezza, di come andare vestiti, di come comportarsi, di come reprimersi. Di come sentirsi in colpa se un altro vuole il tuo male. Parlava di purezza. Anna doveva essere pura, bianca come una stoffa ben candeggiata. Come una statua di marmo. Ecco cosa si aspettavano da lei. Ecco, come avrebbero voluto che si salvasse.
Il lupo si avvicinava, mentre i ricordi assalivano prepotentemente Anna. Il male che tutti le avevano fatto assumeva finalmente una forma, e adesso la bramava fra le sue fauci, giù, in un sol boccone. Anna cominciò a gridare e a correre. Il lupo la inseguiva, strascicando pesantemente le zampe tozze attraverso il sentiero. Anna sapeva che la sua unica alternativa, la sola ancora di salvezza, sarebbe stata l’altra strada. Sentì la lingua calda del lupo sfiorarle la schiena. Con un salto, si lanciò sul sentiero che prima aveva evitato. La via più lunga. La via che sua madre le aveva raccomandato. La scatola da aprire non c’era più. Dove era finita? Anna non lo sapeva, ma ormai neanche ci pensava. L’unico conforto era di essere scappata dal lupo. Non l’aveva affrontato, ne era fuggita. In preda all’euforia, cominciò a correre per il nuovo sentiero, stracciandosi gli abiti di dosso, in una gioia incontenibile. Una gioia che presto finì. Avrebbe solo voluto correre, nuda, libera, inoffensiva e indisturbata. Ma il fato le era avverso. Di nuovo. Adesso, lungo la strada si affacciavano due file di persone. Una parte la indicava, le sputava addosso, sparava giudizi, improperi, condanne. Un’altra invece ne era attratta, un’attrazione morbosa, quasi soffocante. Gli uomini di quella fila allungavano le proprie dita oltre misura e la toccavano, la stringevano, la carezzavano, mentre lei continuava a correre, ancora, ancora, continuava a correre, e doveva stare al gioco. Doveva lasciarsi toccare da tutte quelle mani, altrimenti l’avrebbero presa e cacciata via, l’avrebbero fatta tornare dal lupo cattivo. Lui era sempre lì, ai margini del sentiero, ad aspettarla, insaziabile, immortale.
Un grido disperato, straziato, spezzò come una lama le gambe di Anna, e lei interruppe la sua corsa. Il grido che fin da bambina non avrebbe mai voluto sentire, e che adesso, sola fra quelle persone, fra quelle mani, non poteva sentire. Il grido di sua madre. Stava morendo. No, peggio. Il lupo. Il lupo se l’era mangiata.

Il cammino di Ettore si concluse presto. Si arrestò davanti a una spessa lastra di vetro simile a uno specchio, dove all’inizio credé di veder riflessa la propria immagine. Ma quello non era esattamente lui. Era lui prima. Ecco l’unico essere che poteva suscitare ancora il turbamento di Ettore. Il suo precedente ego, quello antecedente alla crisi. Ettore si fermò in contemplazione, avvertì uno strano sentimento simile alla pena farsi strada a calci nei recessi più nascosti dell’animo. Proiettato sul vetro, c’era un uomo perennemente indaffarato e preoccupato. Era circondato da una folla di persone, composta da ogni nome, ogni volto che avesse compiuto in lui una particolare svolta dal giorno in cui era nato fino al momento culminante della crisi. Genitori, amici, parenti, insegnanti, colleghi di lavoro, fidanzate più o meno importanti. Tutti sembravano improvvisarsi sarti attorno a lui nella composizione di chissà quale meraviglioso vestito. Doveva essere un abito davvero eccezionale, regale, da imperatore, tanto l’Ettore dello specchio si preoccupava di rimirare come gli stesse indosso, e prendeva nota degli errori, delle imperfezioni, delle possibili migliorie, un lavoro che sembrava impegnare ogni fibra del suo essere, ogni istante del suo tempo. Peccato, però, che l’uomo in realtà fosse completamente nudo. Eppure non se ne accorgeva, e nessuno degli altri individui nella lastra di vetro pareva notare questo particolare.
Ettore continuava a guardare il suo duplicato dello specchio mentre si lamentava, con insistenza e accanimento sempre maggiori, che il vestito gli stava male, che bisognava fare qualcosa per aggiustarlo, altrimenti sarebbe stata la fine. Sembrava davvero una questione di vitale importanza. Del resto, come poteva essere altrimenti? L’Ettore nello specchio non aveva fatto altro che preoccuparsi del vestito, e adesso che non gli stava più si era reso conto di non essersi curato d’altro in tutta la sua esistenza. Quando le persone attorno a lui cominciarono ad abbandonarlo, la moglie, i figli, dicendogli che quel vestito non andava più bene per lui, l’Ettore dello specchio si infuriò. Si avvicinò le mani addosso come per strapparsi l’abito, ma poiché di abiti non ce n’erano, finì con lo strapparsi la pelle.
Ettore distolse lo sguardo da quello scempio, tornò indietro in preda a una sottile inquietudine mista a disgusto, che via via divenne sempre più forte, fino a esacerbare le sue percezioni all’inverosimile. Ora vedeva e sentiva attorno a sé una moltitudine di volti sconosciuti che lo fissavano, lo criticavano, alcuni ne erano spaventati. E lui non riusciva a capire perché. Fu una voce più bassa e leggera delle altre, la voce di un bambino, a fargli acquisire la consapevolezza. Anche lui era nudo, come l’Ettore dello specchio. Stava girando per una strada del suo quartiere, completamente svestito. Stava rivivendo quella scena. Presto l’avrebbero arrestato. Ma perché, si chiedeva Ettore, quello scandalo? L’Ettore dello specchio era sempre stato nudo, eppure tutti l’avevano trattato come se avesse avuto indosso un appariscente vestito. Adesso invece, gli altri erano consapevoli della sua nudità, e non la accettavano. Perché? C’erano forse due modi diversi di essere nudo?
Ettore udì un brontolio sommesso alle sue spalle. Subito dopo due lunghi e larghi signori in uniforme lo stavano portando via da quella curiosa platea. Ettore avrebbe potuto ribellarsi, ma a cosa sarebbe servito? La sua mente era rivolta soltanto all’Ettore dello specchio, a quel suo ultimo, sconcertante gesto. C’erano un disprezzo, un rancore inarrestabili, struggenti, in quella volontà di strapparsi la pelle dal corpo. Verso chi era indirizzato tale rancore? Verso l’Ettore oltre il vetro? O verso se stesso? O verso entrambi?


Adesso tutto sembrava tornato alla normalità. I sette si erano risvegliati da quei sogni intrisi di tenebre e angosce. Ora sedevano tutti ai posti originari, impegnati negli stessi movimenti precedenti all’allucinante richiamo. Ma qualcosa era cambiato in loro. Un’inedita consapevolezza, come essersi accorti tutt’a un tratto di possedere un arto in più, o un lato indecifrabile della personalità. Al centro del tavolo, in piedi, il bambino. Il libro era appoggiato accanto a lui, chiuso. Nessuna traccia di quella nuvola luminosa, nessun pianto a percuotere l’equilibrio dei presenti. I sette lo guardavano, e la situazione non suscitava più alcuno stupore. Anche il bambino li scrutava, quieto e concentrato.
“Ricordate chi siete?” Tutti insieme, quasi contemporaneamente, fecero cenno di sì.
“Bene.” La voce del bambino aveva un suono a cui nessuna creatura umana sarebbe potuta definirsi avvezza, non era né maschile né femminile, né rauca né infantile, né stanca né giovanile. Se il pensiero avesse potuto toccare le persone come gocce di pioggia, la voce del bambino sarebbe stata quel pensiero, quelle gocce. Piero ruppe il silenzio.
“Parla tu, Cinzia.”
Cinzia adesso non provava più paura, nessuno la provava. Si rivolse al bambino.
“Cinzia non è il mio nome, giusto? Piero, Michele , Anna, Ettore. Non sono mai stati i nostri veri nomi.”
“Giusto.” La voce del bambino sembrava risuonare fra le pareti. Cinzia proseguì, la sua era la confessione di tutti, un’apertura, un’ammissione della propria identità.
“Noi siamo i personaggi di quelle fiabe. Qualcosa, o qualcuno, ci ha strappati dal nostro libro, dalle nostre storie. Sei stato tu?”
Il bambino sorrise, un sorriso saggio e spontaneo.
“No, non sono stato io. Avete preso coscienza di voi stessi, ma ancora non avete capito dove vi trovate. Avete bisogno di altre risposte.”
Ci fu una pausa. Il bambino sembrò levitare dal tavolo fino a raggiungere il soffitto.
“Ascoltate. Cenerentola, Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso… Siete stati portati tutti nel medesimo mondo. Un mondo molto simile alla realtà. Ma in ognuna delle vostre storie, voi eravate i protagonisti. Tutti insieme non riuscivate ad andare d’accordo, ognuno voleva che la storia diventasse la propria.”
“Ma c’è dell’altro.” Cinzia rammentò la carezza e la domanda. Il bambino sorrise di nuovo.
“Sì. C’è dell’altro. Vivere con i principi del mondo reale significa rinunciare a un altro elemento fondamentale. La storia non finisce. Va avanti. Nessuno vive felice e contento. La vostre fiaba è andata avanti, in questo mondo. Siete diventati grandi, vecchi. Siete cresciuti con le regole della vita reale applicate a voi stessi.”
“Come sei riuscito a farci comprendere la verità?”
“Vi ho messo di fronte al vostro io più autentico. Vi ho permesso di esplorare a fondo i rispettivi demoni, le rispettive paure.”
“Ma se non sei stato tu a portarci nel mondo reale… chi è stato?”
“No. Non è esatto. Non siete nel mondo reale. Credete di esserlo. Ma c’è un altro mondo, fuori da qui. E’ lì che si trova lui.” Nel pronunciare quell’ultima parola, il bambino indicò il suo stesso corpo con la punta delle dita. Ma quello non era il suo corpo.
“Lui vi ha portati qui. Vi ha visti in quel libro e vi ha creati, qui. Nella sua mente.”
“Siamo nella sua mente? Nella mente del bambino di cui tu sei la proiezione?”
“Sì. Io sono la sua parte cosciente. Voi siete l’inconscio. E’ nella fusione fra me e voi che nasce la fantasia.”
“Ma noi finora non ti avevamo mai visto. Perché sei comparso?” Cinzia si bloccò improvvisamente, come se le parole si fossero volatilizzate ancora prima di uscire dalla bocca. La medesima intuizione attraversò ognuno dei sette come un lampo.
“Lui sta morendo. Non è così? Per questo sei spuntato tu. Ora ricordo tutto. Lui ci ha creati dopo aver assistito a quella riunione di condominio. E’ stata la sua ultima esperienza, prima che la malattia lo colpisse. Povero bambino.” Cinzia si ritrovò inavvertitamente gli occhi bagnati dalle lacrime.
“C’era sua madre alla riunione. Ce l’aveva portato lei, perché non sapeva dove lasciarlo. Si era portato dietro un libro di fiabe, per passare il tempo… E poi, nei mesi successivi… In quel letto di ospedale… dormiva. Ma la sua fantasia era sveglia. E ha generato noi. La commistione fra quegli inquilini che litigavano sempre… e i personaggi delle fiabe.”
“Voi adesso siete individui totalmente diversi”, soggiunse il bambino, “Nella sua mente siete vivi quanto le persone nel vero mondo reale. Ma siete in conflitto. In guerra fra voi. Lui non può guarire, se voi siete in guerra. Solo quando vi unirete, legandovi assieme… potrete essere abbastanza forti da salvarlo.”
I sette si guardarono fra loro, perplessi.
“Dovete farlo, i medici del mondo reale hanno esaurito gli strumenti. Hanno detto che è il bambino a dover avere la volontà di svegliarsi. Solo voi, con il mio aiuto, potete dargli quella volontà. Ma dovete essere in pace. Dovete andare d’accordo. Non semplicemente coesistere. Trarre giovamento l’uno dall’altro, acquistare energia dalla semplice condivisione delle storie, delle esperienze. Dimenticate l’illusione di essere i protagonisti della vostra storia. Siete tutti i protagonisti, di una nuova storia, una storia molto più grande.”
“Ma… ma…”, Marisa Brescia intervenne timidamente.“Abbiamo tutti le nostre storie, i nostri problemi e anche… le nostre inimicizie. Come facciamo a dimenticarle? E noi, poi? Che ne sarà di noi, quando ci saremo uniti?”
“Non dovete farlo per voi.” Il bambino si indicò nuovamente il corpo.
“Dovete farlo per lui. Lui ha il diritto di crescere, di evolversi. Ha il diritto di diventare migliore di voi, un giorno. Se vi unirete, dimenticando le vostre battaglie… Non solo gli salverete la vita. Gli insegnerete ad essere una persona migliore.”
Cinzia sorrise. Guardò gli altri sei. Anche loro, ormai, erano convinti. Parlare divenne superfluo. Era il momento di agire. Uniti. Mano nella mano. Cinzia reggeva la mano di Michele Brescia, Michele Brescia quella di Marisa, Marisa quella di Piero, Piero quella di Anna, Anna quella di Ettore, Ettore quella di Amedeo e Amedeo di nuovo quella di Cinzia. La nuvola di luce si risollevò. Questa volta partì dal bambino, e raggiunse i sette, li circondò e li penetrò, e a sua volta essa fu penetrata da loro. Li assalì una strana sensazione, al principio quasi sgradevole. Sembrava di star smarrendo tutte le proprie certezze, come sbilanciarsi e perdere l’equilibrio. Salvo poi scoprire che nessuno era caduto. Anzi, la gravità non aveva più alcun senso. Stavano viaggiando, assieme, nelle profondità del cielo. Ognuno di essi sentì il proprio corpo diventare più leggero, riducendosi a due dimensioni. Per un istante, tornarono di carta, nelle fattezze ingenue e antiche di quei personaggi. Cenerentola, Hansel e Gretel, Il Principe Ranocchio, Il Pifferaio di Hamelin, Cappuccetto Rosso, L’Imperatore Vanitoso. Finalmente insieme, come un unico personaggio, un unico essere superiore alla somma dei suoi componenti. Mentre le essenze di carta si dissolvevano, quella nuova intelligenza fu attraversata da un ultimo pensiero, o per meglio dire da una domanda. Avrebbe funzionato? Sarebbero riusciti a salvarlo? Gli avrebbero permesso di migliorare? Un interrogativo senza risposta. Di ciò che erano stati, rimanevano solo alcune parole fluttuanti, che si ripetevano come una filastrocca. “E tutti vissero felici e contenti.” Sarebbe avvenuto così? Se si fosse trattato di una fiaba, certo. Ma quella era una fiaba? O la realtà? Probabilmente si trattava del confine esatto fra le due cose. E se era il confine, quali regole, quali criteri potevano stabilire la riuscita o il fallimento di un’impresa? Forse nessuno. E in questa assenza di canoni, libera e armoniosa, sta la vera essenza della pace. La guerra è finita.

Emanuele Bucci

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Settembre 2009 10:26
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