Fra tutti i possibili marcatori, questo studio si è concentrato sui lipidi presenti nel sangue, perché esistono alcuni presupposti, per ora solo teorici, che fanno intravedere la possibilità di correlare la gravità della malattia col modo in cui l’organismo elabora i lipidi. Per questo scopo, 50 pazienti reclutati dai reparti di terapia intensiva e sub-intensiva dell’Ospedale San Paolo di Milano sono stati esaminati in base ai parametri clinici e biochimici utilizzati per determinare lo stato di gravità dell’infezione: proteina C-reattiva (misura dello stato infiammatorio), l’indice di Horowitz (misura della capacità respiratoria), D-dimero (misura dello stato di coagulazione), creatinina (misura della funzionalità renale) e età. In aggiunta a queste analisi di routine, un campione di sangue prelavato dal paziente al momento del ricovero è stato esaminato con una procedura di spettrometria di massa che permette di ricavare da un piccolo campione di meno di un millilitro la quantità di praticamente tutte le piccole molecole (o metaboliti) con un ruolo nella reazione del paziente all’infezione. Con l’utilizzo di sofisticati test statistici, i dati ottenuti sono poi stati messi in relazione con l’andamento dell’infezione una settimana dopo il ricovero. Da queste analisi, sono emerse alcune considerazioni importanti.
Prima di tutto, si è osservata una diminuzione generalizzata della quantità di lipidi presenti nel sangue. Inoltre, sono state individuate 29 specie di lipidi che potrebbero servire a discriminare quei pazienti che sono successivamente peggiorati. Tali specie appartengono a diverse categorie di lipidi, ma soprattutto si sono rivelate essere sfingolipidi, ceramidi e sulfatidi. Infine, fra questi 29 sono stati identificati due lipidi, le sfingomieline 20:0 e 22:2, che fanno parte della classe degli sfingolipidi, che potrebbero più degli altri rappresentare dei marcatori candidati per monitorare la progressione e la gravità della malattia.
“Questi dati, naturalmente, necessitano di conferma utilizzando coorti più ampie di pazienti e soprattutto i risultati ottenuti da studi simili eseguiti da altri gruppi di ricerca in Italia e all’estero. In attesa di tali conferme, noi siamo però convinti che i risultati che sono stati pubblicati su Scientific Report serviranno all'intera comunità scientifica internazionale non solo per predire il possibile aggravamento del paziente, ma anche come supporto per la diagnosi precoce di un’infezione grave (anche non-COVID-19) e per monitorare lo sviluppo di nuovi trattamenti farmacologici” concludono Michele Samaja e Rita Paroni, biochimici dell’Università Statale di Milano e autori dello studio.