La connessione tra concetto di ambiente e di bene culturale ha sicuramente radici più profonde, rispetto alla ratifica di un trattato internazionale: essa investe la percezione soggettiva ed al contempo spazia nei confini immateriali, storici e culturali, di ogni Paese.
Prendendo tuttavia spunto da una “celebrazione” poco sentita, almeno quest’anno, a livello di politica nazionale e vissuta invece con grande coinvolgimento nelle città (in questo non hanno fatto differenza Nord e Sud: da Torino a Palermo le iniziative sono state numerose, compresa l’anteprima mondiale di un film dedicato all’ambiente) si è pensato di presentare una breve riflessione su un fenomeno tanto inquietante, quanto vissuto con intima rassegnazione. Si tratta del problema oggettivo della ricaduta, sui monumenti all’aperto, dei fattori più inquinanti nelle città ad alta densità di popolazione: esso è sotto i nostri occhi, il degrado quotidiano è inarrestabile e spesso gli effetti benefici dei restauri sono di breve durata. Fonti del CNR riferiscono chiaramente di un nesso tra cambiamenti climatici e deterioramento dei beni architettonici e monumentali, quali il Duomo di Milano, la cui pietra è costantemente sottoposta ad un effetto “dilavante” a causa dell’aumento delle precipitazioni (nel Nord Europa, ad esempio in Scandinavia, tale effetto è combinato all’aumento di CO2 nell’atmosfera) mentre i monumenti realizzati, nel Bacino del Mediterraneo, con marmo di Carrara potrebbero subire fino a 300 eventi all’anno di dilatazione e contrazione del materiale a causa delle repentine variazioni di temperatura derivanti dalla radiazione solare. Sono dati, questi, che fanno riflettere, se si pensa che tali fenomeni di “stress termico” possono causare delle microfratture del materiale stesso con effetti facilmente immaginabili sull’opera d’arte.
L’antropizzazione dei luoghi è l’altro elemento determinante nella concentrazione di inquinanti nelle zone urbane: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato che il 75% della popolazione è condensata nelle aree urbane, con un presumibile aumento nei prossimi anni fino a raggiungere l’80% nel 2020. Tale concentrazione si traduce in un raggruppamento di fattori di pressione sugli ecosistemi e sulle risorse naturali: scarichi nei corpi idrici, emissioni atmosferiche di sostanze tossiche per l’uomo e gli altri organismi viventi, produzione di rifiuti. Si è calcolato che circa il 75% della popolazione italiana vive in aree urbane dove si consuma più del 70% dell’energia e da cui proviene oltre l’80% delle emissioni antropiche di gas serra.
Prenderemo ad esempio di quanto riportato una zona italiana che ha conosciuto nel ‘900 un forte sviluppo industriale ed urbanistico, il Piemonte e la città di Torino. Recenti studi (condotti dalla Regione Piemonte e dall’Agenzia Regionale per l’Ambiente piemontese ) hanno considerato come il suolo possa ritenersi un elemento del paesaggio capace di registrare nel tempo molte dinamiche, compreso il fenomeno dell’antropizzazione. I reperti archeologici e paleontologici accumulati su un sito pedologico possono fornire infatti a grandi linee informazioni preziose sulle modifiche funzionali e dimensionali intercorse nell’area abitata, permettendo talvolta delle ricostruzioni paleoambientali dell’intero bacino in cui essa ricade. Gli autori della ricerca fanno notare come giardini pubblici, campi da gioco, discariche, aree ex industriali, ferrovie, rappresentino oggi l’esempio di un suolo fortemente influenzato dall’antropizzazione più recente, laddove l’influenza umana è massima e le componenti naturali spesso sono scomparse. Per gli oltre 300 campioni analizzati i suoli urbani torinesi presentano un pH più elevato rispetto a quello delle aree circostanti, ovvero un pH medio di 5.6 della pianura torinese rispetto al 7.2. della città di Torino. Si ritiene che ciò sia dovuto alla miscelazione del suolo originario con detriti provenienti da cantieri di demolizione o costruzione (cemento, intonaci, o mattoni). Il progetto europeo URBSOL ha evidenziato inoltre come la contaminazione da metalli pesanti sia una delle caratteristiche comuni a quei suoli urbani con una importante storia industriale alle spalle. Le misure registrate risultano spesso al di sopra dei limiti di legge (D.Lgs. 152/06) ad esempio per quanto riguarda il piombo e lo zinco, con valori connessi al traffico veicolare e riscontrati nelle aiuole spartitraffico. A tale fenomeno bisogna aggiungere un altro gruppo di sostanze chimiche tossiche e persistenti quali le diossine, i furani, gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e i PCB (bifenili policlorurati) la cui presenza nell’ambiente è determinata da svariate fonti civili e industriali difficilmente individuabili: le diossine tendono infatti a rimanere sospese nell’atmosfera per lungo tempo, associate al particolato atmosferico o in forma gassosa, per distribuirsi poi diffusamente su ampie porzioni di territorio.
Infine, è di recentissima pubblicazione uno studio sui campi di concentrazione di alcuni inquinanti atmosferici (PM10, SO2 e NOx) relativamente alla città di Torino nel periodo 2004-2007 sulla base delle schede contenute nella Carta del Rischio del Patrimonio Culturale (fonte ISCR). In tale ricerca sono stati individuati due indicatori (Rischio Territoriale e Rischio Individuale, per i quali si rinvia allo studio citato) che permetterebbero di ottenere informazioni sull’interazione tra il bene ed il territorio di appartenenza, così da fornire ausilio per eventuali interventi preventivi di manutenzione e restauro. Il concetto di “restauro preventivo” inteso come “tutela, rimozione di pericoli, assicurazione di condizioni favorevoli” per il bene culturale, considerato anche nelle sue componenti ambientali, risale allo storico dell’arte Cesare Brandi (1906 – 1988) fondatore nel 1939 dell’Istituto Centrale del Restauro ed autore di Teoria del restauro (1963) e Segno e immagine (1960). Oggi tuttavia i criteri e le metodologie prendono in considerazione altri elementi, quali la definizione di “rischio” (relazione tra quantità di danno e probabilità dell’evento comportante il danno); il monumento preso quale elemento minimo di georeferenziazione in rapporto alla unità territoriale (il comune in questo caso); le variabili non scomponibili di un processo di deterioramento che rendono un “modello di rischio” statistico difficilmente applicabile ai beni artistico-culturali. Il rischio viene quindi suddiviso in: statico-strutturale (degrado connesso a sismi, frane, valanghe, dinamica del litorale, ecc.); ambientale-aria (danno derivante da fattori climatici o di inquinamento); antropico (fattori che possono modificare lo stato di conservazione del bene, quali densità demografica, l’abbandono dei luoghi o viceversa un forte flusso turistico) ed è articolato in tre livelli (territoriale, individuale e locale). Nel caso di Torino sono stati considerati anche gli indici di erosione (perdita del materiale con cui è costruita l’opera d’arte a causa di interazione con inquinanti atmosferici quali NOx e SO2 e con fattori climatici, tipo precipitazioni e pH della pioggia), di annerimento (particolato atmosferico e sporcamento della superficie), di stress fisico (interazione termica e igrometrica tra il materiale e l’ambiente circostante). Da notare che la nostra legislazione non prevede un valore limite (oltre il quale si segnala il danno/deterioramento del bene) per la concentrazione di inquinanti: nella ricerca citata sono stati utilizzati i valori limite annuali per la salvaguardia della salute umana e degli ecosistemi previsti dal D.M. 60/2002 di Recepimento delle Direttive 1999/30/CE e 2000/69/CE relative rispettivamente ai “valori limite di qualità dell’aria ambiente per biossido di zolfo, biossido di azoto, ossidi di azoto, le particelle e il piombo” ed ai “valori limite di qualità dell’aria ambiente per il benzene ed il monossido di carbonio” (op.cit).
In estrema sintesi, utilizzando la lettura dei dati elaborati sugli “indicatori” citati, riferiti agli anni 2004 - 2006, si potrà vedere che per due luoghi-simbolo della città (Palazzo Carignano - ala seicentesca e Canonica di S. Francesco da Paola, scelti da chi scrive poiché riportano i valori più alti nella tabella che vede ben 39 monumenti in esame) la componente PM10 (indice di annerimento) ha avuto un picco nel 2005, riscendendo di poco nel 2006; la componente NOx (indice di erosione che ha riportato valori di rischio per 15 opere su 39) rilevata sulla Canonica ha visto un brusco aumento per il 2005/2006 mentre per Palazzo Carignano l’oscillazione è stata contenuta; la componente SO2 (indice di erosione) ha invece subito una diminuzione dal 2004 al 2006 per entrambi i monumenti citati grazie alla diminuzione di concentrazione di tale inquinante nella zona.
Probabilmente il progetto-pilota proseguirà nelle altre città italiane, probabilmente le amministrazioni locali (e non solo) si avvarranno delle possibilità offerte dalle normative comunitarie in materia, forse qualcuno richiamerà alla memoria le convenzioni internazionali che scaturirono, molti anni fa, da un’improvvisa presa di coscienza dei Paesi industrializzati: ma a guardare un’opera d’arte creata dal genio dell’uomo, tra terra e cielo, sarà sempre e solo un altro essere umano con la sua personale coscienza ecologica.
Note:
1 - v. Cristina Sabbioni, ISAC-CNR di Bologna (“Noha’s Ark”) e Luciano Cessari, ITABC-CNR di Roma (recupero complesso monumentale del Bedestan, Cipro).
2 - Renzo Barberis, Gabriele Fabietti, Mattia Basioli: “La contaminazione diffusa dei suoli torinesi”, 2008
3 - “Calcolo del rischio territoriale e del rischio individuale per i beni di interesse storico-artistico a Torino”, a cura dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, 2009
Luisa Sisti