Denti fossili di squalo



Un gruppo di ricerca multidisciplinare, composto da esperti dell’Istituto di fisica applicata "Nello Carrara" (Cnr-Ifac), dell’Università di Pisa, del Museo Paleontologico GAMPS di Scandicci e del Dipartimento di Computer Science dell'Università di Cambridge, ha sperimentato un nuovo approccio di studio basato sull’Intelligenza Artificiale, per analizzare i denti fossili di squali vissuti nel Pliocene, trovati nella campagna della Toscana. Essi sono testimonianze di vita marina risalente al periodo che va da 5 a 2,5 milioni di anni fa, quando gran parte della regione, in particolar modo la zona di Siena, era sommersa dal mare profondo, ricco di pesci, alcuni dei quali estinti.


L’ibridazione genetica con i Denisoviani ha permesso alle attuali popolazioni dell’Himalaya di evolvere adattamenti utili per ridurre il rischio cardiovascolare associato alla scarsità di ossigeno nel sangue e garantire un adeguato livello di ossigenazione dei tessuti, caratteristiche fondamentali per la sopravvivenza ad elevate altitudini.


Le popolazioni Tibetane e Sherpa che vivono nella regione dell'Himalaya hanno acquisito, a seguito del mescolamento con l'Uomo di Denisova, una serie di varianti
genetiche che gli permettono di vivere stabilmente ad alta quota. La scoperta - pubblicata sulla rivista eLife - è stata realizzata da un gruppo
di ricerca coordinato dall'Università di Bologna. Gli studiosi hanno analizzato i genomi di individui appartenenti a gruppi etnici nativi delle regioni himalayane di Tibet e Nepal per capire l’impatto biologico che hanno avuto varianti introdotte nel loro patrimonio genetico dall'ibridazione con popolazioni di Uomo di Denisova, una specie umana arcaica vissuta in Asia fino a circa 30.000 anni fa.
L'obiettivo era verificare se queste varianti genetiche si fossero rivelate vantaggiose per far fronte agli stress della vita ad alta quota, primo fra tutti la ridotta capacità dell’organismo di catturare l’ossigeno presente nell’atmosfera.


La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi.

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.


Un team interdisciplinare di scienziati di cui fa parte l’Università degli Studi di Milano ha scoperto che l’interazione tra proteine e RNA nel ribosoma primordiale, un fossile molecolare ancora presente nella struttura cellulare attuale, ha prevenuto la degradazione dell’RNA stesso, permettendo l’emergere delle attuali e specifiche relazioni RNA-proteine, essenziali per l’integrità strutturale ribosomiale e quindi per la vita. La pubblicazione su Nucleic Acids Research.
La vita, come la conosciamo oggi, si basa sulla connessione tra gli acidi nucleici, che immagazzinano informazioni, le proteine, che svolgono innumerevoli compiti, e i lipidi che formano le membrane circostanti. Queste interazioni tra precursori molecolari iniziarono a verificarsi più di 4 miliardi di anni fa, prima che emergessero le prime forme di vita.

Oued Beht, Khemisset. Foto aerea del sito (foto: T. Wilkinson, Archivio OBAP)

Oued Beht, Khemisset. Foto aerea del sito (foto: T. Wilkinson, Archivio OBAP)

 


A Oued Beht in Marocco, grazie a un progetto di ricerche archeologiche multidisciplinari, è venuto alla luce il più antico complesso agricolo finora documentato in Africa al di fuori della Valle del Nilo. Le testimonianze individuate indicano, infatti, la presenza di un vasto insediamento di circa dieci ettari, paragonabile per dimensioni al sito di Troia dell’età del Bronzo Antico.

Oued Beht, secondo gli studiosi, fornisce nuove e importantissime informazioni sul popolamento del Maghreb tra IV e III millennio a.C., confermando il ruolo cruciale di questa regione nell'evoluzione delle società complesse nel Mediterraneo e in Africa settentrionale. I risultati delle ricerche sono stati pubblicati in un articolo open access sulla rivista Antiquity.

 


Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.
Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell'Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documenta-ta dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleo-biologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i pro-cessi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.


Identificata l’immagine di un grande felino nella pietra rinvenuta a Grotta Romanelli da un team internazionale di cui fanno parte anche ricercatori della Sapienza. Il reperto è stato datato a circa 12.000 anni fa, quando erano presenti ormai pochi esemplari di leone nel nostro continente. Lo studio rivela importanti peculiarità sull’arte delle ultime società di cacciatori e raccoglitori dell’Italia e dell’Europa.


Un nuovo studio, frutto di un approccio interdisciplinare che ha coinvolto ricercatori di diversi enti, fra cui Sapienza Università di Roma, ha identificato in una pietra rinvenuta 80 anni fa a Grotta Romanelli (Castro, Lecce) l’immagine di un grande leone, databile a circa 12.000 anni fa. Il reperto costituisce l'ultima rappresentazione e anche l'ultima testimonianza di leone delle caverne in Europa. La ricerca, a cui hanno collaborato anche CNRS, Université Jean-Jaurés, ISPC-CNR, Universidad Complutense de Madrid, Università di Milano, Università di Torino, IGAG-CNR e Università di Cagliari, è stata pubblicata sulla rivista Quaternary Science Reviews.

L’altopiano persiano, il luogo dove gli antenati di tutti i non africani hanno vissuto per 20.000 anni dopo aver lasciato l’Africa. In questo periodo è avvenuta anche la loro mescolanza genetica con i Neanderthal

 


Un nuovo studio genetico guidato dall’Università di Padova identifica il luogo che ospitò tutte le popolazioni non africane e servì da hub per la colonizzazione di Eurasia, Oceania e Americhe.

Tutte le attuali popolazioni umane non africane sono il risultato di suddivisioni avvenute dopo che i loro antenati lasciarono l’Africa, almeno 60.000 anni fa. Queste suddivisioni, tuttavia, non avvennero subito: ci sono voluti altri 20.000 anni, durante i quali tutti i non africani facevano parte di un’unica popolazione. Ma dove hanno vissuto in quel periodo? Un anno fa, questa domanda non avrebbe avuto risposta. Oggi, invece, è possibile conoscere con precisione il luogo che ospitò la nostra specie e servì da hub per la colonizzazione successiva grazie allo studio The Persian Plateau served as Hub for Homo sapiens after the main Out of Africa dispersal appena pubblicato sulla rivista «Nature Communications» e condotto dai ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in collaborazione con il dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, l’Università Griffith di Brisbane (Australia), l’Istituto Max Planck di Jena (Germania) e l’Università di Torino.


Cereali, legumi e tuberi facevano parte della dieta umana in Sudan orientale: venivano macinati e cotti.
Pubblicato su «Scientific Reports» lo studio dal titolo “Direct evidence of plant consumption in Neolithic Eastern Sudan from dental calculus analysis” dei ricercatori delle università di Padova, "La Sapienza" di Roma, “L’Orientale” di Napoli, Coimbra e il Museo delle Civiltà di Roma che, a partire dall’analisi del tartaro dentale, rivela le abitudini alimentari di gruppi umani che vivevano in Sudan orientale durante il Neolitico, tra il IV e il II millennio a.C..


Resistente alle alterazioni post-deposizionali e grazie anche alla scarsità di pratiche igieniche del passato, il tartaro dentale è molto abbondante nei contesti archeologici e il suo studio permette di ottenere informazioni importanti sullo stile di vita dei nostriantenati. Al suo interno, infatti, possono restare intrappolati frammenti di piante, fibre, pollini, batteri e altri residui che consentono, oggi, di ricostruire aspetti chiave della vita delle popolazioni antiche, compresi quelli legati alla dieta, all'ambiente, alla salute e allo stile di vita.

Photograph by Matteo Riccardo Di Nicola

 


Una ricerca dell’Università Statale di Milano in collaborazione con la Società Adriatica di Speleologia e lo Spleovivarium di Trieste ha scoperto che il proteo può anche raggiungere la superficie. Durante questo studio è stata anche avvistata per la prima volta al mondo una larva di tre mesi. La ricerca è pubblicata su Ecology.


È uno degli animali più curiosi del pianeta. La sua pelle è priva di pigmentazione, gli occhi sono quasi assenti, ha un corpo anguilliforme, può vivere fino a 100 anni e digiunare per otto. Ma il suo habitat non è unicamente sotto terra. Diffuso nelle grotte della Slovenia (comprese quelle famosissime di Postumia), ma anche nelle acque sotterranee italiane, in particolare nelle province di Trieste e Gorizia sino al fiume Isonzo, il proteo (Proteus anguinus) è da sempre considerato un anfibio esclusivamente sotterraneo. Ora però, una ricerca, iniziata a giugno 2020, coordinata dal Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con la Società Adriatica di Speleologia e lo Spleovivarium di Trieste e pubblicata sulla rivista Ecology, ha scoperto che l’anfibio può raggiungere la superficie, anche durante il giorno.

 

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