Pubblicati sulla rivista Science i risultati di uno studio internazionale che ha riportato alla luce importanti resti fossili nel sito paleoantropologico di Drimolen. Nel team di ricerca anche Università di Pisa e Università di Firenze


Due milioni di anni fa in Sudafrica, nella cosiddetta Cradle of Humankind (culla dell’umanità), hanno vissuto contemporaneamente i nostri antenati Australopithecus, Paranthropus robustus e Homo erectus. Lo dimostra uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Science, a cui hanno partecipato anche Giovanni Boschian, docente del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, che nello specifico ha coordinato lo studio stratigrafico, curando la parte microstratigrafica, e Jacopo Moggi-Cecchi, antropologo dell’Università di Firenze, membro storico del gruppo.

Nel corso degli scavi condotti a Drimolen, un sito paleoantropologico situato presso Johannesburg, ricercatori e studenti di varie nazionalità hanno riportato alla luce due nuovi fossili importanti, entrambi databili tra 2.04 e 1.95 milioni di anni fa, lo stesso periodo in cui è attestata la presenza in Sudafrica dell’Australopithecus. I nuovi fossili sono DNH 152, chiamato “Khethi” in riconoscimento al proprietario del terreno, è un neurocranio di Paranthropus robustus, incompleto ma che mostra bene la parte superiore della calotta. Il Paranthropus robustus è un ominino appartenente alle australopitecine e caratterizzato da un apparato masticatore estremamente robusto, con molari grossi anche più di 2 cm. Fin qui, non sarebbe un ritrovamento particolarmente nuovo se non fosse associato, nei medesimi strati, a DNH 134, chiamato “Simon” in ricordo di un collaboratore della ricerca prematuramente scomparso, che non è certamente un Paranthropus, come dimostrano la struttura cranica e le grandi dimensioni dell’encefalo. Si tratta di un altro neurocranio incompleto attribuito a un individuo giovane, che presenta notevoli analogie con Homo erectus sensu lato. Purtroppo manca la faccia, che avrebbe potuto dare informazioni più precise.


Un nuovo studio internazionale, a cui ha preso parte la Sapienza, ricostruisce le dinamiche migratorie post-neolitiche nelle isole del Mediterraneo occidentale e rivela nuovi dati sulla storia genetica degli abitanti. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Ecology & Evolution.


Fin dalla preistoria il Mar Mediterraneo ha rappresentato una delle principali rotte per le migrazioni marittime nonché centro delle relazioni commerciali e delle invasioni, ma la storia genetica delle isole di questo bacino è ancora poco documentata, nonostante i recenti sviluppi nello studio del DNA antico.

Un nuovo studio internazionale, nato dalla collaborazione tra ricercatori della Sapienza, dell'Università di Vienna, dell'Università di Harvard, dell'Università di Firenze insieme alla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le provincie di Sassari e Nuoro, ha analizzato il DNA di 66 individui preistorici per ricostruire la storia genetica delle antiche popolazioni delle isole del Mediterraneo, in particolare Sicilia, Sardegna e isole Baleari.

L’analisi del DNA antico di un gruppo di individui, risalenti a Neolitico, Età del Bronzo ed Età del Ferro, ha portato alla luce un modello complesso di migrazioni dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa che varia in dinamiche e tempistiche per ciascuna delle isole del Mediterraneo. In Sicilia, ad esempio, è stata riscontrata una nuova discendenza a partire dalla media Età del Bronzo (2000-1550 a.C.), che si sovrappone cronologicamente con l'espansione della rete commerciale greco-micenea.

 


Una ricerca rivela la predominanza del pesce nella dieta degli abitanti del Sahara di 10.000 anni fa e getta luce sulle fasi del progressivo inaridimento nella regione. Lo studio coordinato dal Dipartimento di Scienze dell'antichità della Sapienza, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università degli Studi di Milano e con il Royal Belgian Institute of Natural Sciences di Brussels, è ora pubblicato su Plos One. 


Uno studio appena pubblicato su PLOS ONE, coordinato da Savino Di Lernia del Dipartimento di Scienze dell'antichità della Sapienza e svolto in collaborazione con Andrea Zerboni del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università degli Studi di Milano e con Wim Van Neer del Royal Belgian Institute of Natural Sciences di Brussels, rivela come la fauna ittica rappresenti la maggior parte dei resti animali emersi nel riparo del Tararkori, nel Sahara centrale libico, nel primo e medio Olocene.

Il deposito archeologico indagato ha restituito migliaia di ossa di pesce, corrispondenti a specie diverse e a individui di grandi dimensioni, oltre un metro di lunghezza, paragonabili a quelli che oggigiorno vivono nel fiume Nilo o nei grandi laghi africani.

Tutti i resti animali restituiti dal riparo del Takarkori, più di 17.500, sono stati identificati come scarti alimentari, grazie ai segni di taglio e di cottura che presentavano; di questi, solo il 19% è costituito da mammiferi, uccelli, rettili e molluschi (gli anfibi sono l’1% del totale) mentre il restante 80% è riconducibile alla fauna ittica.

La datazione dei resti ha attestato la graduale riduzione della fauna ittica a favore dei mammiferi: dalla predominanza ittica pari al 90% tra gli anni 10.200-8.000, si è arrivati a circa il 40% di apporto ittico tra il 5.900-4.650; questo dato consente di apprezzare la progressiva affermazione della pastorizia nel Sahara, durante la quale la risorsa ittica ha gradualmente perso importanza, per scomparire intorno ai 5000 anni fa.


Il riconoscimento alla giovane Flavia Venditti che grazie alle analisi condotte presso il Laboratorio Sapienza LTFAPA, ha accertato il riciclo degli strumenti in pietra già 400.000 anni fa.


Già 400.000 anni fa, gli antichi cacciatori-raccoglitori riciclavano antichi strumenti di pietra ormai inutilizzati per produrre nuove schegge: questo il senso dello studio condotto da Flavia Venditti, che le è valso il Tübingen Prize for Older Prehistory and Quaternary Ecology 2020. La ricerca, intitolata “The recycling phenomenon during the Lower Paleolithic: the case study of Qesem Cave (Israel)” e svolta durante il dottorato di ricerca in Archeologia alla Sapienza, è stata condotta attraverso analisi microscopiche e chimiche presso il “Laboratory of Technological and Functional Analyses of Prehistoric Artefacts”, diretto da Cristina Lemorini del Dipartimento di Scienze dell’Antichità che è stata anche la tutor di tale ricerca di dottorato.


Flavia Venditti ha dimostrato come antichi cacciatori-raccoglitori vissuti 400.000 anni fa nel sito del Paleolitico Inferiore di Qeserm Cave (Israele) riciclassero antichi strumenti di pietra inutilizzati per produrre nuove schegge piccole e taglienti. Attraverso le analisi di laboratorio, è stato possibile diagnosticare tracce riconducibili alla lavorazione delle carcasse animali attraverso attività di macellazione, ma anche di lavorazione di osso, pelli e persino di piante e tuberi. Le particolari condizioni di preservazione degli oggetti analizzati hanno reso possibile identificare micro-residui di osso, tessuti animali e grasso relativi al loro utilizzo. Nei suoi esperimenti, Flavia Venditti dimostra come questi piccoli strumenti fossero particolarmente adatti a compiere specifiche attività di taglio con un alto grado di accuratezza. Inoltre, attraverso la distribuzione degli oggetti nel sito, la ricercatrice ha messo in luce una chiara divisione spaziale delle attività nelle diverse aree della grotta.
Attraverso il suo lavoro la ricercatrice è stata in grado di evidenziare come i nostri antenati del Paleolitico si impegnassero in azioni mirate di riutilizzo delle risorse disponibili, aprendo la strada a ricerche future sull’argomento.


Portati alla luce centinaia di testi cuneiformi databili all'inizio del II millennio a.C., di cui otto le tavolette ben conservate e tre “buste” di argilla


Migliaia di anni fa in Mesopotamia, per scambiarsi in formazioni di ogni tipo, le lettere si scrivevano su tavolette che poi si inviavano in “buste” di argilla. Tre grandi porzioni di queste “buste” sono parte di un eccezionale ritrovamento, per quantità e stato di conservazione dei reperti, portato alla luce durate una campagna di scavi in Iraq condotta dall’Università di Pisa in collaborazione con l’ateneo di Siena e quello iracheno di al-Qādisiyyah. In particolare gli archeologi hanno trovato un centinaio di frammenti con testi cuneiformi databili all'inizio del II millennio a.C. (fra cui ben otto tavolette intere o quasi) oltre a un ricco repertorio ceramico e a più di novanta “cretule”, cioè blocchetti di argilla con impronte di sigillo o corda applicate a chiusura di contenitori.


Le indagini archeologiche concluse a novembre hanno riguardato Tell as-Sadoum nell’Iraq centro-meridionale. Il sito di 50 ettari, a est di Najaf, su un ramo del fiume Eufrate è stato identificato con Marad, una antica città della Mesopotamia meridionale, la cui storia copre un lungo arco cronologico che va dal Protodinastico (III millennio a.C.) al Neobabilonese (I millennio a.C). In particolare gli scavi hanno riguardato un grande tempio sulla sommità della collina principale e due quartieri, uno residenziale e l'altro produttivo dove sono state rinvenute gran parte dei testi e delle cretule.
“In generale le tavolette testimoniano la ricchezza e vivacità della vita economica e amministrativa delle antiche città della Mesopotamia e ci parlano spesso di transazioni contabili, questioni amministrative e giuridiche – spiega il dottor Anacleto D'Agostino, docente di Archeologia del Vicino Oriente all’Università di Pisa che ha coordinato il progetto – quelle che abbiamo trovato, di epoca Isin-Larsa/antico-paleobabilonese e che sono in corso di studio, contengono contratti di compravendita e lettere, e menzionano i nomi di sovrani, formule di datazione e forse il riferimento ad alcune città”.

Uno studio internazionale analizza il DNA antico per raccontare 12.000 anni di migrazioni e diversità. La ricerca è stata pubblicata in copertina sul numero di novembre di Science

L’analisi di campioni di DNA umano provenienti da 29 siti archeologici ha rivelato un’ampia varietà genetica a Roma al tempo della sua fondazione, ma anche nei millenni precedenti, confermandola città incrocio di migrazioni e passaggi da ogni angolo del mondo. Diversità e inclusività hanno caratterizzato la millenaria storia di Roma e del suo territorio circostante: questo è quanto emerge dalla ricostruzione genetico-storica, condotta da un team internazionale composto da genetisti, bioinformatici, antropologi, archeologi e storici della Sapienza e delle università di Stanford e di Vienna, oltre ad altre istituzioni italiane. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, che gli ha dedicato la copertina di novembre.

I dati del DNA antico, ottenuto da 127 individui in 29 siti archeologici di Roma e dintorni, in un periodo compreso tra il Paleolitico Superiore e l’Era Moderna, hanno permesso di descrivere l'origine, i flussi migratori e i cambiamenti che hanno riguardato gli antichi Romani e gli abitanti delle regioni italiane limitrofe nel corso degli ultimi 12.000 anni.

Il quadro emerso dallo studio racconta il divenire della Città Eterna da una nuova prospettiva, confermando quanto è stato appreso fino a oggi dalle fonti, dagli archivi e dalle ricerche antropologiche ed archeologiche, ma aggiungendo nuovi dati e prospettive: ad esempio, circa 8000 anni fa l’area era già popolata da cacciatori-raccoglitori, e si arricchisce della presenza di agricoltori di origine mediorientale (anatolici e sorprendentemente anche iraniani); successivamente, tra 5.000 e 3.000 anni fa, i DNA analizzati restituiscono l’arrivo di popolazioni dalla steppa ucraina. Con la nascita di Roma e il costituirsi dell’Impero Romano, la variabilità genetica cambia e incrementa ulteriormente. Per questo momento, il DNA “legge” arrivi dai diversi territori dell’impero, con una predominanza dalle aree mediterranee orientali e soprattutto dal Vicino Oriente. Gli eventi storici segnati dalla scissione dell’Impero prima e dalla nascita del Sacro Romano Impero comportano un afflusso di ascendenza dall'Europa centrale e settentrionale.


Uno studio condotto dalla Sapienza, in collaborazione con l’Università di Tel Aviv, ha gettato un’inaspettata luce sulla produzione di utensili bifacciali caratterizzanti la cultura acheuleana. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports
La cultura acheuleana risale all’era del Paleolitico inferiore ed è caratterizzata da manufatti litici bifacciali a forma di mandorla, lavorati sui due lati in maniera simmetrica. Da sempre questi utensili hanno attirato l’attenzione dei ricercatori che ne hanno fatto lo strumento principe per la ricostruzione delle strategie di sussistenza di Homo erectus, il diretto antenato dei Neanderthal.

Accanto alla produzione di bifacciali e di grandi strumenti da taglio esiste però una produzione composta da schegge e strumenti di piccole dimensioni che per decenni sono stati ignorati dalla comunità scientifica perché considerati prodotti di scarto delle produzioni principali. Nel sito archeologico di Revadim, in Israele, sono state scoperte centinaia di queste piccole, a volte minuscole, schegge di selce associate alla presenza di numerosi bifacciali, raschiatoi e cospicui resti di fauna, incluso l’elefante.


Un team della Sapienza guidato da Lorenzo Nigro del Dipartimento di Scienze dell'antichità ha scoperto a Mozia i resti di una stele fenicia con un’iscrizione dedicata al “servo di Melqart”, titolo del re della città
Un team della Sapienza, guidato da Lorenzo Nigro del Dipartimento di Scienze dell'antichità, ha rinvenuto, all’interno di una torre difensiva a Mozia, una stele con un’iscrizione in fenicio che recita “tomba del ‘servo di Melqart’ figlio di…”, titolo normalmente riferito al re dell’isola.

Durante l’ultimo giorno di scavi, la Missione archeologica della Sapienza ha scoperto i resti di un’importante sepoltura, celati all’interno di una camera cieca di una torre difensiva del primo circuito murario della città, databile alla metà del VI secolo a.C. Assieme ad alcuni vasi frammentari, sono stati rinvenuti resti umani di un adulto e di un bambino e un cippo funerario in calcarenite. Della stele è conservata la parte superiore, alta circa 45 cm, e sulla sommità sono ancora presenti tracce di pittura rosso vivo. Su un lato il cippo reca un’iscrizione monumentale in fenicio conservata su quattro linee che indica: “tomba del ‘servo di Melqart’ figlio di…”. Melqart è il dio protettore del re di Mozia che, ricorrendo a questo appellativo, sottolineava il diritto divino della propria regalità. Lo stato di conservazione dell’iscrizione, sebbene incompleta, la pone tra le migliori iscrizioni monumentali mai rinvenute sull’isola e fornisce un’importante indicazione sia sulla localizzazione della necropoli sia sulla cronologia di quanto portato alla luce.

La missione archeologica a Mozia coordinata da Lorenzo Nigro fa parte dei Grandi scavi di Ateneo ed è condotta in convenzione con il Dipartimento Beni culturali della regione siciliana – Soprintendenza BBCCAA di Trapani e in collaborazione con la Fondazione G. Whitaker.

 


Lo rivela un fossile di 5 milioni di anni fa scoperto vicino a Grosseto dai paleontologi dell’Università di Pisa


Il beluga (Delphinapterus leucas) e il narvalo (Monodon monoceros) sono due affascinanti cetacei che vivono esclusivamente nelle gelide acque artiche, senza mai allontanarsene, e sono gli unici rappresentanti attuali della famiglia dei Monodontidi.
Oggi è impossibile vederli nelle calde acque del Mediterraneo e ancora più assurdo - almeno così si pensava - che potessero essere vissuti in questo mare all’inizio del Pliocene, quando il nostro clima era tropicale. Invece è successo. Ad Arcille, vicino a Grosseto, in una cava di sabbia è stato scoperto il cranio fossile di un monodontide di circa 5 milioni di anni fa. Gli è stato dato il nome di Casatia thermophila. ‘Casatia’ è un omaggio a Simone Casati, scopritore di molti importanti fossili della Toscana e in particolare della cava di Arcille, e ‘thermophila’ significa ‘amante del caldo’ per sottolineare che questo cetaceo viveva in acque tropicali.


Un nuovo studio, coordinato dalla Sapienza, scopre il più antico calendario lunare in un ciottolo del Paleolitico superiore proveniente dai Colli Albani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Archaeological Science: Reports
Il calendario lunare più antico è un ciottolo del Paleolitico superiore rinvenuto nella zona di Velletri, sui Colli Albani. A svelarlo è Flavio Altamura del Dipartimento di Scienze dell’antichità della Sapienza, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, che ha presentato i risultati di analisi condotte su un’enigmatica pietra decorata più di 10.000 anni fa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Journal of Archaeological Science: Reports.

Il reperto è stato rinvenuto nel 2007 sulla cima di Monte Alto, sui Colli Albani, a sud di Roma. Il manufatto è stato definito come strumento “notazionale” e rappresenta uno dei rarissimi reperti paleolitici per i quali gli studiosi hanno ipotizzato questo utilizzo. Ad attirare l’attenzione degli archeologi sono tre serie di brevi incisioni lineari, chiamate “tacche”, lungo tre lati adiacenti del ciottolo. I misteriosi segni comprendono rispettivamente sette, nove/dieci e undici tacche, disposte in maniera regolare e simmetrica, fino a esaurire lo spazio disponibile lungo ciascun lato.

 

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