Gennaio 2022

Team internazionale di ricercatori mette a punto nuovo modello paleoclimatico che evidenzia il ruolo dell’attività vulcanica nell’estinzione di massa di 201 milioni di anni fa.
Siamo sicuri che le emissioni di gas serra prodotte dall’Uomo non abbiano alcun analogo naturale nel passato geologico del nostro pianeta?
Rocce di 201 milioni di anni, formatesi durante un’attività magmatica eccezionale e sincrona con una delle più devastanti estinzioni di massa, rivelano evidenze di vulcanismo di breve durata, nell’ordine di pochi secoli…un battito di ciglia per la scala geologica! Lo studio Anthropogenic-scale CO2 degassing from the Central Atlantic Magmatic Province as a driver of the end-Triassic mass extinction, pubblicato nel numero di febbraio della rivista «Global and Planetary Change» e condotto da un gruppo di ricerca internazionale, guidato da Manfredo Capriolo (Università di Padova, ora presso il centro di ricerca CEED, Università di Oslo, Norvegia), ha messo a punto un nuovo modello paleoclimatico che mostra il potenziale impatto delle emissioni di CO2 a scala antropogenica derivanti dall’attività vulcanica eccezionale che ha sconvolto il clima e l’ambiente di fine Triassico, scatenando un catastrofico evento di estinzione di massa.

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I ricercatori del progetto International Pulsar Timing Array (IPTA), avvalendosi dei lavori e delle competenze di diverse collaborazioni di astrofisici di tutto il mondo – inclusi membri dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – hanno recentemente completato l’analisi del più completo archivio oggi disponibile di dati sui tempi di arrivo degli impulsi di 65 pulsar, ciò che resta di stelle di grande massa esplose come supernove. Questa accurata indagine sperimentale rafforza le indicazioni teoriche che suggerirebbero la presenza di un vero e proprio “brusio” cosmico, prodotto da onde gravitazionali di frequenze ultra basse (da miliardesimi a milionesimi di Hertz) emesse da una moltitudine di coppie di buchi neri super-massicci.

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Su Nature Communications lo studio che rivela come il DNA disperde l'energia della luce UV: mimportanti le conseguenze nelle nanotecnologie e in farmacologia. La ricerca condotta dall’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr, Politecnico di Milano, Università di Bologna, Università della Tuscia e Heinrich Heine Universität Düsseldorf.

Un nuovo studio pubblicato dalla prestigiosa rivista Nature Communications spiega come il DNA si protegge dalle mutazioni causate dalla luce ultravioletta attraverso i suoi elementi costitutivi, i nucleosidi. I risultati, ottenuti sfruttando impulsi di luce di durata estremamente breve, potranno avere importanti applicazioni nelle nanotecnologie e in farmacologia, come la lotta al tumore della pelle.
Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifn), del Politecnico di Milano, dell’Università di Bologna, dell’Università della Tuscia e dell’Heinrich Heine Universität Düsseldorf. Il laser, infatti, permette di generare impulsi di luce incredibilmente brevi, con una durata di pochi milionesimi di miliardesimo di un secondo, e osservare fenomeni rapidissimi, come i processi fondamentali che avvengono quando la luce interagisce con gli organismi viventi, fra cui la visione o la fotosintesi.
Il DNA, la molecola che codifica le informazioni necessarie per la costruzione delle proteine, assorbe efficientemente la componente UV della luce solare, una proprietà comune a moltissime biomolecole.

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In a first-of-its-kind surgery, a 57-year-old patient with terminal heart disease received a successful transplant of a genetically-modified pig heart and is still doing well three days later. It was the only currently available option for the patient. The historic surgery was conducted by University of Maryland School of Medicine (UMSOM) faculty at the University of Maryland Medical Center (UMMC), together known as the University of Maryland Medicine.

This organ transplant demonstrated for the first time that a genetically-modified animal heart can function like a human heart without immediate rejection by the body. The patient, David Bennett, a Maryland resident, is being carefully monitored over the next days and weeks to determine whether the transplant provides lifesaving benefits. He had been deemed ineligible for a conventional heart transplant at UMMC as well as at several other leading transplant centers that reviewed his medical records.

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Lunedì, 10 Gennaio 2022 13:17

Così le cellule perdono i contatti

 

L’E-caderina è una proteina la cui alterazione determina la perdita di contatti cellula-cellula, danneggiando l’integrità degli epiteli. Tale processo risulta evidente in alcune malattie oncologiche. Il nuovo meccanismo è stato identificato da uno studio pubblicato su PNAS di Giovanna Grimaldi e Daniela Corda, del Consiglio nazionale delle ricerche, e collaboratori.

 

 La formazione di contatti cellula-cellula è fondamentale per la genesi e il mantenimento degli epiteli (insieme di cellule che formano un’unica struttura), per garantire l’equilibrio nelle funzioni dei tessuti e promuovere la trasmissione di segnali di crescita cellulare. Per la formazione di tali contatti è cruciale il corretto trasporto di alcune componenti strutturali, quali le E-caderine, proteine di membrana che mediano l’adesione tra cellule. Un deficit a carico dei geni responsabili dell'espressione della E-caderina determina la sua mancata produzione così come alterati meccanismi di trasporto intracellulare, ne compromettono la corretta collocazione, e possono favorire una predisposizione all'insorgenza di neoplasie di origine epiteliale, facilitandone le metastasi.

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Lo studio di un’onda di tempesta alta 28 m sulle coste europee a cui ha partecipato l’Istituto di scienze marine del Cnr di Venezia, pubblicato su Scientific Reports, dimostra come possano generarsi onde alte fino a 2 o 3 volte l’altezza significativa. Un’informazione cruciale per i naviganti e le piattaforme petrolifere. La pericolosità di questi eventi concerne le onde oceaniche, ma anche quelle ‘nostrane’


Per i naviganti, ed in tempi più recenti per le piattaforme petrolifere, la domanda chiave è “quanto alte possono essere le onde di tempesta?”. Negli anni, l’esperienza diretta e le sempre più numerose misure, sia da satellite che da boe oceanografiche, hanno spinto i valori possibili delle altezze d’onda sempre più in alto. Durante la tempesta del gennaio 2014 nel Nord Atlantico si è stimato (dati del modello del Centro Meteorologico Europeo per le Previsioni a Medio Termine, ECMWF, a Reading, Regno Unito) che l’“altezza significativa”, cioè la misura dell’energia della mareggiata, abbia sfiorato i 20 metri. Questo significa però che si sono verificate certamente singole onde superiori a 35 m. L’analisi seguita all’evento, a cui hanno partecipato Alvise Benetazzo e Luigi Cavaleri dell’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar) di Venezia, pubblicata su Scientific Reports col titolo “Observation of a giant wave-packet on the surface of the ocean”, ha dimostrato che è possibile prevedere in anticipo questi “eventi anomali”, ma solo in senso probabilistico.

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La ricerca coinvolge il Dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa


In una vasca dell’Acquario di Livorno è stata installata una rete costituita da una bioplastica in grado di degradarsi in acqua salata, che verrà usata per realizzare impianti di riforestazione della Posidonia oceanica, una pianta essenziale per l’ossigenazione dell’ecosistema marino. Il risultato deriva da una collaborazione tra A.S.A. SpA (Azienda Servizi Ambientali SpA), il Dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa (DICI), Francesco Cinelli, già docente di Ecologia Marina e Scienza Subacquea all’Università di Pisa, BioISPRA, l’Acquario di Livorno e l’azienda tessile Coatyarn Srl.

“I supporti proposti per la riforestazione dei fondali - spiega Maurizia Seggiani, docente di Fondamenti chimici delle tecnologie al DICI - hanno un grande impatto ambientale, perché costituiti da reti di ferro rivestite con monofilamenti di polipropilene che causano la dispersione in mare di microplastiche e la morte delle specie marine che vi rimangono intrappolate. Il nostro gruppo di ricerca ha individuato e testato una bioplastica, il PBSA (polibutilene succinato-co-adipato), usato in diverse applicazioni in sostituzione di plastiche tradizionali ma mai fino ad ora per applicazioni di restauro marino. Dal PBSA è stata ricavata una rete con proprietà meccaniche adeguate a contenere le talee di piccole piante di Posidonia, e in grado di biodegradarsi in un paio d’anni, il tempo necessario alla pianta per mettere radici”.

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Presso la Breast Unit del Policlinico Tor Vergata è stato effettuato con successo il primo trapianto microchirurgico autologo (realizzato con i tessuti della paziente) per la ricostruzione del seno di una donna di 59 anni affetta da pregressa neoplasia della mammella. L’intervento, eseguito dal Prof. Benedetto Longo, con il coordinamento del Prof. Valerio Cervelli, direttore della Cattedra di Chirurgia Plastica, e del Prof. Oreste Buonomo, direttore della Breast Unit, ha consentito di ricostruire il seno di una paziente precedentemente sottoposta a mastectomia utilizzando i tessuti dell’addome (lembo DIEP). La muscolatura della parete addominale è stata completamente preservata, e i tessuti sono stati trapiantati in sede mammaria e rivascolarizzati con i vasi ascellari, restituendo alla paziente un seno con forma e volume molto naturali grazie all’impiego dei suoi stessi tessuti.

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Ipotetici feromoni identificati nei primati ed albero filogenetico di questi organismi

 

Nei primati l’uso di feromoni sessuali è oggetto di discussione. Nell’uomo mancano gli elementi anatomici e biochimici coinvolti in tale funzione. In particolare, non è presente una proteina dedicata al trasporto di feromoni in altre specie, a causa di una mutazione evolutiva già presente nel Neanderthal. Una collaborazione fra l’AIT di Tulln (Austria) ed il Cnr-Ispaam ha però ricostruito tale proteina mancante, individuando in sostanze con odore muschiato alcuni potenziali feromoni nei primati. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Biology and Evolution.

La comunicazione tra membri della stessa specie mediata dai feromoni, sostanze chimiche secrete da ghiandole specializzate, è molto diffusa tra gli organismi viventi, ma nelle scimmie antropomorfe e nell'uomo non vi è attualmente una sufficiente evidenza di tale fenomeno. Tra i primati, in particolare, i lemuri usano i feromoni per comunicare all'interno della specie, mentre tale capacità sembra essere persa in alcuni tipi di scimmie. La comunicazione feromonale nell'uomo sarebbe impedita dalla mancanza di strutture anatomiche dedicate e/o dal malfunzionamento di relazionati meccanismi molecolari. Sono infatti assenti l'organo vomeronasale, deputato in molti animali alla percezione dei feromoni, i relativi recettori, ed anche proteine trasportatrici di tali molecole, note come SAL o MUP, già identificate in mammiferi quali maiale e topo, dove la comunicazione sessuale attraverso segnali chimici è stata ampiamente dimostrata. Al fine di chiarire quale sarebbe potuto essere un ipotetico feromone in alcuni primati e nell'uomo, Giovanni Renzone, Simona Arena ed Andrea Scaloni dell’Istituto per il Sistema Produzione Animale in Ambiente Mediterraneo del Cnr di Portici hanno collaborato con Valeriia Zaremska, Isabella Fischer, Paolo Pelosi e Wolfgang Knoll dell'Austrian Institute of Technology di Tulln. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Biology and Evolution.

Pubblicato in Scienza generale

 

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Nanotec) delle sedi di Lecce e Bari con i colleghi dell’Università di Bari, ha affrontato criticamente il problema della stabilità chimica nel tempo degli inchiostri a base di perovskite proponendo indicazioni per ricerche future, inclusa un'indagine sugli strumenti diagnostici più efficaci utilizzati finora per indagare su tali inchiostri. Il lavoro è contenuto in una Perspective pubblicata su Chem.

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